Inquilino Moroso? Il proprietario doppiamente bersagliato : dalla mancata riscossione del canone e dalle tasse del fisco

E’ possibile non pagare le tasse sui canoni di locazione non riscossi?

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Non si tratta di una novità, ma è argomento che è sempre bene rinfrescare, e che suscita giustificati stupori e problemi all’atto di informare la clientela. Stiamo parlando del meccanismo fiscale di tassazione dei canoni di locazione, e specificatamente di cosa succede quanto l’inquilino – circostanza sempre più comune – non paga il canone di locazione.

Incominciamo a fissare alcuni paletti. Il caso che andiamo ad analizzare riguarda i riflessi nella dichiarazione dei redditi del proprietario dei muri (privato), quando l’inquilino risulta inadempiente nel versamento dei canoni di locazione dovuti.

Il primo aspetto cui, operativamente, occorre prestare attenzione, è la “natura fiscale” del locatore. Quanto appresso infatti vale se il locatore è persona fisica, che concede in locazione un immobile, indipendentemente dal regime fiscale scelto (quindi, le considerazioni a seguire valgono anche in caso di opzione per la cedolare secca).

Il secondo aspetto, fondamentale, sul quale occorre essere attenti è la natura della locazione. Come vedremo, infatti, la circostanza che la locazione riguardi un immobile ad uso abitativo, piuttosto che un immobile ad uso non abitativo (industriale, commerciale, artigianale), comporta conseguenze del tutto differenti nel momento in cui il conduttore risulti moroso.

Entriamo nel dettaglio, ricordando la norma base, che prevede che i canoni di locazione siano soggetti a tassazione (e quindi “da dichiarare”), per competenza, e non per cassa. Risulta quindi, in termini generali, del tutto irrilevante che il canone non sia stato percepito. Basta la sussistenza di un titolo valido (leggasi contratto di locazione) per fa sì che il locatore debba dichiarare gli affitti, e quindi versare le relative imposte. Non importa se gli affitti siano stati effettivamente incassati o meno.

Fino alla L. 431/1998 quanto sopra valeva per tutti gli immobili, abitativi o meno. La 431 è poi andata a modificare parzialmente il TUIR, introducendo un’importante eccezione che va a “salvare”, almeno in parte, la posizione tributaria dei proprietari che concedono in affitto immobili ad uso abitativo (categoria A, escluso A/10 uffici), introducendo la seguente disposizione: “I redditi derivanti da contratti di locazione di immobili ad uso abitativo, se non percepiti, non concorrono a formare il reddito dal momento della conclusione del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità del conduttore. Per le imposte versate sui canoni venuti a scadenza e non percepiti come da accertamento avvenuto nell’ambito del procedimento giurisdizionale di convalida di sfratto per morosità è riconosciuto un credito di imposta di pari ammontare”.

Lo sfratto esecutivo, quindi, “salva” dalle imposte il proprietario in caso di locazione ad uso abitativo. Si tratta certamente di una buona notizia, tuttavia non è possibile non rimarcare una evidente disparità di trattamento operata ai danni dei locatori di immobili ad uso non abitativo. Questi ultimi, infatti, laddove si trovino a non percepire i fitti dovuti (che oltre tutto normalmente sono di importo rilevante), sono anche obbligati a dichiarare i canoni “virtualmente spettanti” come da contratto, addirittura quando si trovino a poter dimostrare con un sfratto esecutivo di non averli percepiti.

Si potrebbe pensare che le due norme non siano così distanti, per il fatto che in caso di declaratoria da parte del Tribunale di sfratto esecutivo per inadempienza normalmente viene anche dichiarata la risoluzione del contratto. Dov’è dunque la differenza?

Vediamolo con un esempio concreto. Fermo restando che l’avvenuta dichiarazione di risoluzione contrattuale per inadempienza del conduttore libera, da quel momento in avanti, il locatore dall’obbligo di dichiarare i canoni (e quindi dalla risoluzione contrattuale dichiarata dal Tribunale in avanti, certamente, non si dovranno più versare imposte su somme mai percepite), cambia invece, e di molto, il trattamento dei canoni non incassati da quando l’inquilino incomincia a non pagare sino ad avvenuta risoluzione.

Cerchiamo di comprendere con un esempio concreto. L’immobile A è ad uso abitativo, l’immobile B è ad uso commerciale. In entrambi i casi il fitto richiesto è di 500 euro.

Immaginiamo che al mese di gennaio il conduttore smetta di versare il dovuto. Passano alcuni mesi, ipotizziamo tre, ed il locatore, stufo, si rivolge al Tribunale. I tempi, lo sappiamo, non sono velocissimi, anche per eventuali opposizioni proposte dal conduttore al provvedimento di sfratto. Immaginiamo dunque di riuscire ad ottenere l’agognata declaratoria di convalida di sfratto per morosità nel mese di novembre, con annessa risoluzione contrattuale per colpa del conduttore.

Ora, l’anno successivo, alla compilazione della dichiarazione dei redditi, nel caso A si potranno legittimamente non dichiarare tutti i canoni indicati come non pagati nella causa di sfratto, quindi, nel nostro esempio, tutti i canoni effettivamente non percepiti da gennaio in avanti. Questo, lo ripetiamo, perché trattasi di immobile ad uso abitativo ed è intervenuta la sentenza di sfratto esecutivo. Si tratta di due condizioni che debbono coesistere.

Completamente diverso il caso dell’immobile B, ad uso commerciale, per i quali la mancata percezione del fitti e nemmeno la convalida di sfratto serviranno a nulla. Il proprietario in questo caso dovrà dichiarare i fitti da gennaio a novembre inclusi, la bellezza di euro 500 x 11 = 5.500 euro di reddito, sui quali versare le imposte e mai incassati. Si “salverà” solo per il mese di dicembre essendo, finalmente, stata dichiarata la risoluzione del contratto.

Una evidente distorsione, che più volte è stata messa “sotto accusa”, ma confermata in più occasioni dall’Agenzia delle Entrate (vedasi C.M. n. 150/E/1999, C.M. n. 101/E/2000 e C.M. n. 11/E/2014). Anche la Corte di Cassazione 18.01.2012 n. 651 e la C.T.R. Torino 08.07.2010 n. 53/5/10 hanno confortato il diverso trattamento in caso di immobile ad uso abitativo o non abitativo. La C.T.R. Torino, specificatamente, in sentenza afferma: “quanto previsto per i redditi da locazione ad uso abitativo non può tuttavia estendersi alla mancata percezione di canoni relativi a locazione commerciale, trattandosi di norma eccezionale, e come tale, non suscettibile di applicazione analogica”.

Alla luce di quanto sopra risulta di vitale importanza ai fini tributari, nella stipula di un contratto di locazione in genere, ma soprattutto in quelli aventi ad oggetto immobili strumentali (capannoni, negozi, uffici ecc.) prevedere una robusta “clausola risolutiva espressa” che stabilisca, in caso di morosità, la risoluzione automatica del contratto, previa comunicazione (con raccomandata o PEC) all’inquilino della volontà di avvalersi della suddetta clausola risolutiva espressa. In tal modo sarà possibile far constare all’Agenzia delle Entrate, in tempi decisamente più brevi rispetto a quelli delle aule giudiziarie, l’avvenuta risoluzione, potendo in tal modo, a far data dalla risoluzione stessa, legittimamente non dichiarare i canoni di locazione virtualmente risultanti dal contratto (essendo lo stesso risolto), e così evitando, almeno in parte, di pagare le imposte su canoni mai percepiti.

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