martedì 30 gennaio 2018

Lo psicologo: «Nei festivi non bisogna lavorare»

Papa Francesco ha difeso il riposo domenicale, Di Maio chiede la chiusura dei negozi nei giorni festivi. Ma il riposo è davvero l’opzione migliore, in un periodo di crisi economica generalizzata? Ne abbiamo parlato con un esperto
«Il settimo giorno è per il riposo». Lo ha detto ieri Papa Francesco, difendendo il diritto al riposo domenicale, nell’udienza generale del mercoledì. «È un’invenzione cristiana, quella del giorno settimanale di astensione dai lavori. In età romana non esisteva. Per tradizione biblica gli ebrei riposano il sabato, mentre nella società romana non era previsto un giorno settimanale di astensione dai lavori servili. Fu il senso cristiano del vivere da figli e non da schiavi, animato dall’Eucarestia, a fare della domenica il giorno del riposo».


Pochi giorni fa, anche Di Maio aveva lanciato un appello per l’approvazione della proposta di legge per la chiusura dei negozi nei giorni festivi: «Le liberalizzazioni selvagge di Monti e dei decreti Bersani hanno fallito. Hanno solamente spalmato su sette giorni lo stesso incasso che i negozi facevano prima in sei. A fronte di nessun beneficio economico, le conseguenze sociali sono state disastrose. Hanno «massacrato le famiglie degli esercenti che non si riposano più. I bimbi devono crescere a contatto con i loro genitori. Famiglie più felici sono la premessa di una Italia più forte!».

Ma è proprio così? Lo abbiamo chiesto a Matteo Marini, psicologo che lavora da anni come consulente e formatore in diverse aziende nel settore delle consulenze aziendali, del benessere organizzativo, dello stress, della comunicazione aziendale e della comunicazione persuasiva, e che ha scritto diversi libri, tra cui Happy Worker. Come vivere il lavoro autonomo senza stress e Fucking Monday. Corso di sopravvivenza in ufficio (Giunti Editori).

La domenica è davvero sacra?
«Assolutamente sì: noi esseri umani abbiamo un bisogno fisiologico di decomprimere lo stress. Ma non bastano le pause del weekend: dovremmo farne anche durante la giornata lavorativa: ben vengano le pause caffè, i cinque minuti di relax. I lavori più stressanti sono quelli che non consentono la decompressione: pensiamo alla professione del chirurgo, che non riesce a “staccare” anche per molte ore. Ma dopo essersi concentrati molto, l’attenzione, e quindi la performance, diminuisce».

Lo stress è davvero così dannoso?
«Lo stress non è una malattia, ma porta a nevrosi ed è la causa dello sviluppo di diverse patologie. L’eccesso di stress uccide alcuni tipi di linfociti, per cui siamo meno difesi dalle malattie, diventiamo immunodeficienti, o al contrario possiamo sviluppare un ipertrofismo del sistema immunitario e essere colpiti da intolleranze e allergie».

Lavorare anche nei giorni festivi fa male a tutti?
«Sì, anche se bisogna tenere conto di diversi elementi. Una persona resiliente resiste sicuramente meglio. Poi, è importante il grado di gratificazione che si prova facendo il proprio lavoro. In ogni caso, anche chi è più resiliente e soddisfatto, mentre lavora ha rapporti limitati con la famiglia e gli amici: rinunciare alla vita sociale riduce la qualità della vita».

E chi lavora la domenica, ma sta a casa il lunedì?
«Rischia l’isolamento sociale, perché la maggior parte delle persone è libera nel weekend. Chi lo fa deve essere consapevole che il suo stile di vita aumenta lo stress».

Per le persone in difficoltà economiche, non è più stressante non avere un impiego che lavorare di domenica?
«Si può fare per un po’: il nostro cervello si basa sulle priorità, e la prima è dare sostentamento a se stessi e alla propria famiglia. Non poterlo fare risulta essere un elemento profondamente stressante. Ma anche lavorare troppo non è un’opzione sana: a lungo andare, produce conseguenze negative».

Perché è importante «staccare»?
«Il lavoro implica proiezione, l’identificazione in un ruolo. Ma sperimentarsi in altri ruoli e liberarsi da quello lavorativo è terapeutico. Bisogna essere, oltre che un lavoratore, un genitore, il presidente della squadra di calcetto, l’appassionato di alianti o di francobolli. Dentro di noi convivono tanti aspetti che formano la personalità: dobbiamo riuscire a dare nutrimento a ciascuno».

Essere pagati di più può compensare lo stress di lavorare nei festivi?
«Solo se poi si decomprime subito. Possiamo lavorare a Natale, se il giorno di Santo Stefano partiamo per una vacanza che possiamo permetterci grazie a un breve periodo di iper lavoro. Ma lo stress deve assolutamente essere abbattuto».

Ci sono fasi della vita in cui è più difficile «staccare».
«L’organismo, soprattutto quello delle donne, è fatto per resistere a stress grandi, ma le riserve degli individui non sono illimitati. Alle volte ci stupiamo di quanto siamo forti, ma non è una situazione destinata a durare per sempre, e pensare il contrario è delirio di onnipotenza. Dopo anni di stress, il corpo si esaurisce, subentrano patologie, e non si riesce più a compensare rimanendo a casa nel fine settimana».

Ogni quanto tempo è necessario «staccare»?
«L’importante è farlo spesso. Ad esempio, anziché le due o tre settimane di vacanze estive, sarebbero più efficaci tante mini ferie, come si usa fare in diversi Paesi europei. Anche perché, dopo due settimane di vacanza, l’impatto del ritorno al lavoro è piuttosto traumatico. Meglio partire frequentemente, per 4 o 5 giorni: le vacanze possono anche essere economiche, se ci si accontenta. Partire “ripulisce” dalla routine e ci fa ritrovare un po’ di quella natura nomade che fa antropologicamente parte di noi, e che per gli esseri umani è terapeutica».

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Congedo parentale per chi adotta un cucciolo



Fino a due settimane di permesso retribuito per chi adotta un cane. Arriva da alcune aziende Usa il provvedimento che sostiene i dipendenti che hanno animali domestici
Se portare il proprio cane al lavoro è il desiderio di molti, per gli amanti degli animali si apre un nuovo capitolo sul fronte dei diritti. Arriva il congedo parentale per chi adotta un cucciolo, una settimana retribuita da dedicare alle cure del nuovo arrivato. Proprio come accade, in quasi tutti i Paesi, quando si diventa genitori.

L’iniziativa, già esistente in diverse aziende Usa, è stata lanciata dal birrificio scozzese BrewDog, che nella sua sede di Abeerdenshire ospita 50 cani, considerati come «componenti del personale». Lo stesso accade anche nella sede di Columbus in Ohio.

Un provvedimento che sta prendendo piede soprattutto in diverse realtà aziendali americane. Si chiama «Pawternity leave» e coinvolge sia cani che gatti, soprattutto a Manhattan dove i fedeli amici pelosi dell’uomo sono sempre più presenti e considerati membri della famiglia.

Che cos'è il carisma? Quali sono i suoi pilastri? Qualche trucco per migliorarlo, comunque, c'è

Cos’è il carisma? Bella domanda. In molti hanno provato a dare risposte. Vediamo di fare un po’ di chiarezza sul che cos’è e come si può migliorare il carisma personale. Un attore, per esempio, si dice comunemente che ha carisma. In realtà il carisma è la forza di attrazione che produce su di noi con i suoi comportamenti, la sua storia e il suo modo di relazionarsi. Non è un qualcosa che ha lui, è qualcosa che provoca su di noi. È una forza di attrazione. Il carisma è come una calamita: attrae chi lo subisce. Una persona di fascino, sicura di sé, interessante, che ha particolari doti, avrà dei followers, cioè persone che ne sono attratte e che tenderanno a fidarsi di lei, a seguirlo, ad imitarlo. Pensate ad un personaggio televisivo, ad uno scienziato, ad uno sportivo, ad un musicista: costoro ci cattureranno nella loro “orbita” e giocheranno su di noi una certa attrazione perché scatenano desideri di come vorremmo essere e di avere ciò che ci manca. Andranno dunque a toccare il desiderio di avere una guida, un modello da seguire, oppure di completezza o di realizzazione.

Vediamo ora quali sono i pilastri del carisma.

 1. Autostima. Indica l’aver raggiunto un buon livello di equilibrio con se stessi. Le persone che hanno una buona autostima mostrano pienezza nel proprio agire. Al contrario sono ben poco carismatiche le persone insicure, che mostrano conflitti interiori e che necessitano dell’approvazione degli altri. Le persone con buona autostima esercitano un certo carisma proprio per la pienezza con cui si mostrano in pubblico, per quel senso “completezza” che manifestano. Nei personaggi famosi e, più in generale, nei personaggi pubblici, di cui abbiamo poca o nessuna conoscenza diretta, questo carisma viene creato ad arte dai media, perché venga percepito dal pubblico anche laddove non c’è realmente nel personaggio in oggetto.

2. Sicurezza nei propri mezzi. È il senso di autoefficacia che accompagna alcune persone che confidano nei propri mezzi. Costoro sanno che qualunque cosa accada saranno in grado di gestire la situazione al meglio. Ne deriva una fiducia in sé che attrae chi invece ne è carente.

3. Vision. Le persone carismatiche sanno cosa vogliono e hanno una direzione nel proprio agire. Pensiamo a grandi uomini della storia come Nelson Mandela, Martin Luther King, Ghandi. Avevano chiara la propria missione, che dava un senso, una direzione, alla propria vita. La vision è ciò che rende costoro diversi dagli altri, in quanto vedono ciò che gli altri non riescono a vedere. Pensate ai visionari come Steve Jobs, oppure Picasso.

4. Costanza e determinazione. Non si fermano là dove gli altri desistono. Queste sono le persone carismatiche, speciali perché dotate di una forza di volontà non comuni. Basti pensare a grandi sportivi della soria come Pietro Mennea, oppure allo stesso Alex Zanardi, persone straordinarie che hanno fatto delle proprie vite storie eccezionali di esempio per generazioni di persone. Il carisma è proprio dell’idolo, dell’icona dello sport come della scienza o della musica.

5. Azione. Le persone carismatiche sono persone di azione. Esse non si accontentano di parlare, agiscono e aprono la strada. Pensate agli imprenditori di successo, ai politici, agli attivisti sociali. Costoro hanno followers non solo metaforicamente, ma anche fisicamente: hanno persone che li seguono nei loro progetti e che sposano la loro causa. Pensate ad Enzo Ferrari, che ha creato intorno a sé dal nulla un progetto prima e una fantastica realtà che ha coinvolto migliaia di persone dopo.

6. Talento. Per avere carisma devi avere un talento e lo devi conoscere. La consapevolezza del proprio talento è fondamentale, come è fondamentale scoprire quel è la propria vocazione. Chi ha carisma ha trovato la propria strada: che sia la musica o il ballo, la poesia o lo sport, per esercitare carisma devi prima aver trovato la tua strada. È su quella strada che si realizzerà il talento di una persona e si scoprirà la vocazione che non conosce fallimento. Vi potranno essere errori, ma non fallimenti.

7. Entusiasmo. Chi ha carisma sprigiona entusiasmo, coinvolge. Se il capo comanda, il leader carismatico ispira e coinvolge le persone. L’entusiasmo è contagioso e chi ha carisma contagia con le proprie emozioni e le proprie idee gli altri.

Se questi sono i 7 pilastri del carisma, cosa possiamo fare in concreto per migliorare il proprio? Vediamo questo decalogo in cui si articola il piano di azione per arrivare a sprigionare il proprio carisma:

1. Lavora sulle tue convinzioni limitanti: “non sono capace di…”, “non sono portato per…”, “non posso fare…

2. Coltiva il dialogo interno (mentale) e chiediti quali sono oggi i tuoi talenti, cosa ti riesce particolarmente bene e cosa ti anima, ti da energia fare e pensare. 3. Allenati ad usare termini positivi e potenzianti nel descriverti la realtà quotidiana: da “non devo, non posso, e se…” passa a “so che posso farcela a…”, “perché no?!”, “chi mi impedisce di…”.

4. Creati un tuo stile nel fare le cose, dalle più piccole alle più importanti. Allena questo stile che ti piace e miglioralo di giorno in giorno.

5. Conduci una vita sana dal punto di vista alimentare e da oggi pensa al tuo corpo come ad un luogo sacro dove inserire solo cibo nutriente e sano e niente più cibo “immondizia”. Il benessere fisico e mentale vanno di pari passo.

6. Crea e alimenta una buona reputazione intorno a te, per ciò che fai, le persone che tratti, i luoghi che frequenti. 7. Coltiva l’umorismo e l’autoironia. Prendi sul serio le tue passioni e non prendere oltremodo sul serio i tuoi errori. Le prime restano e creano il senso della tua direzione, i secondi accadono e passano, per cui non ti devono distogliere dal tuo cammino.

8. Circondati di persone fantastiche. Scegli le persone migliori in ogni campo e da loro impara.

9. Impara a valorizzare ciò che fai, prima di tutto verso te stesso e poi verso gli altri. È questa l’arte del saper “vendere”, ma in senso buono, di saper dare valore, invece di sminuire. Non confondere valorizzare con il fare lo sbruffone o il gradasso. La prima attitudine serve ad avvicinare le persone, la seconda le allontana.

10. Celebra i tuoi successi, anche con piccoli momenti dedicati. Impara a dedicarti le giuste attenzioni e gratificazioni senza dare per scontato nulla. Per consolidare un successo celebralo formalmente in modo da fissarlo nella mente. Basta poco: una sosta al bar con un buon caffè e un pasticcino, un piccolo regalo, un momento di relax. L’importante è che via sia.

Ultimo aspetto, che per molti potrebbe essere il più importante: fai pace con il tuo senso di colpa. Il senso di colpa è solo nella tua testa, non esiste altrimenti, ricordalo. Non serve a nulla, se non a farti star male e depotenziarti. Quando lo provi fermati un momento, abbraccialo perché sei pur sempre tu a generarlo e trasforma quell’energia negativa in una spinta a fare nella direzione che più ti piace. Se provi un senso di colpa è perché una sovrastruttura culturale si sta scontrando con un tuo desiderio o spinta. Lavora sul primo e non sul secondo.

Comunque, quasi fosse un mantra, leggete, nella gallery, 7 frasi famose sull'autostima. Sono un buon inizio.

Canone Rai 2018, modello F24 a rate: scadenze e importo, ecco come fare



I contribuenti tenuti a versare il canone Rai 2018 con modello F24 potranno scegliere di non pagare tutto l’importo entro la scadenza del 31 gennaio ma dilazionare il costo della tassa sulla TV fino ad un massimo di 4 rate.

Il pagamento a rate potrà essere effettuato nelle seguenti modalità:

Canone Rai 2018 in due rate: scadenze 31 gennaio 2018 e il 31 luglio 2018 - importo complessivo di 91,88 euro e importo delle rate pari a 45,94 euro;

Canone Rai 2018 in quattro rate: scadenze 31 gennaio, 30 aprile, 31 luglio e 31 ottobre 2018 - importo complessivo 95,72 euro e importo delle rate pari a 23,93 euro

Canone Rai 2018: Mamma Rai batte cassa

Canone Rai 2018: è in arrivo la scadenza per il pagamento con modello F24 per i contribuenti ai quali non viene addebitato l’importo nella bolletta della luce.

Il termine per effettuare il versamento è fissato al 31 gennaio 2018 ma, per i contribuenti che effettuano il pagamento del canone Tv con modello F24, è possibile rateizzare l’importo di 90 euro dovuto e versare quanto dovuto in un massimo di quattro rate trimestrali.

Tutte le istruzioni per i contribuenti che pagano i 90 euro di canone Rai con modello F24 sono contenute nella circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 45/E del 30 dicembre 2016 e di seguito vedremo regole e quali sono i codici tributo da utilizzare.

L’importo del Canone Rai 2018 sarà, nel caso di pagamento a rate con modello F24, maggiorato dagli oneri tributari pari a un venticinquesimo della somma prevista.

Ricordiamo che anche per il 2018 l’importo del canone Rai sarà di 90 euro e i contribuenti titolari di fornitura elettrica si troveranno addebitato in bolletta un importo dilazionato in 10 rate da 9 euro mensili.

La scadenza del 31 gennaio non riguarda soltanto il pagamento del canone con modello F24 ma è anche il termine ultimo entro cui sarà possibile richiedere l’esenzione.

Vediamo di seguito le scadenze, gli importi e le modalità di pagamento con modello F24.

Canone Rai 2018, pagamento con modello F24: scadenza e importo
Anche per il 2018 è confermato che, per ridurre i casi di evasione, il canone Rai sarà addebitato direttamente nella bolletta dell’energia elettrica.

Ci sono tuttavia molti casi in cui è necessario effettuare il versamento in modalità “separata”.

Prima di vedere quali sono le scadenze e quale l’importo del canone Rai, vediamo quali sono i soggetti obbligati ad utilizzare il modello F24.

Si tratta, in particolare, dei seguenti soggetti:

contribuenti nella cui famiglia anagrafica nessuno è intestatario di contratto di energia elettrica di tipo domestico-residenziale;
contribuenti non connessi con la rete elettrica di trasmissione nazionale, ovvero gli abitanti di Isola di Ustica, Isole Tremiti, Isola di Levanzo, Isola di Favignana, Isola di Lipari, Isola di Lampedusa, Isola di Linosa, Isola di Marettimo, Isola di Ponza, Isola del Giglio, Isola di Capri, Isola di Pantelleria, Isola di Stromboli, Isola di Panarea, Isola di Vulcano, Isola di Salina, Isola di Alicudi, Isola di Filicudi, Isola di Capraia e Isola di Ventotene;
contribuenti residenti all’estero che hanno una casa con tv in Italia;
contribuenti in affitto e con bolletta intestata al proprietario dell’immobile;
contribuenti che, pur titolari del dovere di pagare il Canone Rai 2017, non hanno ricevuto l’importo in bolletta.
La scadenza del Canone Rai 2018 per i pagamenti con modello F24 è fissata come già anticipato al 31 gennaio ma l’importo potrà essere dilazionato fino a 4 rate, con una maggiorazione dovuta al costo degli oneri tributari.

Superbollo auto 2018

Superbollo auto 2018: è fissata al 31 gennaio 2018 la scadenza per il versamento dell’addizionale erariale sulle tasse automobilistiche.

Febbraio 2018: il tuo calendario fiscale

Le scadenze fiscali del mese di febbraio 2018 si presentano come di consueto molto intense, soprattutto per i contribuenti titolari di partita IVA, professionisti e imprese.

Nel mese di febbraio parte la stagione delle dichiarazioni fiscali 2018 relative al periodo d’imposta 2017. Due appuntamenti su tutti. Dal prossimo 1° febbraio sarà possibile inviare telematicamente la dichiarazione IVA 2018, il cui termine di scadenza è fissato, a partire da quest’anno, al 30 aprile (era il 28 febbraio sino allo scorso anno).

A fine mese, rimanendo in tema di IVA, c’è l’ultima scadenza delle comunicazioni trimestrali IVA delle liquidazioni relative al 2017.

Ma non solo, lo scadenzario fiscale di febbraio presenta anche gli appuntamenti con gli adempimenti periodici Irpef, Inps e sostituti d’imposta in generale.

Ecco le principali scadenze fiscali per il mese di febbraio.

Dichiarazione IVA 2018: invio dal 1° febbraio 2018
La prima scadenza da considerare per i contribuenti titolari di partita IVA per il mese di febbraio è quella del 1° del mese: a partire da tale data, infatti, sarà possibile inviare telematicamente la dichiarazione IVA 2018 relativa al periodo d’imposta 2017.

Il termine ultimo di scadenza per l’invio telematico è fissato al prossimo 30 aprile 2018 (era il 28 febbraio sino allo scorso anno).

Proprio la data di scadenza della dichiarazione IVA al 30 aprile ha prodotto parecchi malumori tra i professionisti.

Si consideri a questo proposito, infatti, che il 28 febbraio è il termine di scadenza per le comunicazioni delle liquidazioni IVA relative al IV trimestre: che senso ha mantenere questo tipo di “divaricazione temporale”?

Non si poteva fissare una scadenza univoca al 28 febbraio? Oppure ancora far confluire i dati della Lipe relativa al quarto trimestre direttamente in dichiarazione?

Scadenze fiscali venerdì 16 febbraio 2018: adempimenti periodici IVA, Irpef e Inps
Lo scadenzario fiscale del mese di febbraio 2018 prevede i consueti adempimenti periodici Irpef, Inps e IVA per i contribuenti titolari di partita IVA.

In ordine alle scadenze fiscali periodiche IVA entro il prossimo 16 febbraio 2018 occorre ricordarsi di procedere al:

versamento IVA di competenza gennaio 2018 per i contribuenti che liquidano l’IVA mensilmente. Il versamento deve essere eseguito tramite modello F24 indicando il codice tributo 6001 nella sezione erario.
In ordine all’IRPEF, invece, entro venerdì 16 febbraio 2018 occorre effettuare il versamento delle ritenute alla fonte a titolo d’acconto operate dai sostituti d’imposta su:

redditi di lavoro dipendente e assimilati corrisposti nel mese precedente. Oltre alle ritenute il sostituto d’imposta deve versare anche le addizionali comunali e regionali;
redditi di lavoro autonomo corrisposti nel mese precedente, provvigioni per rapporti di commissione, di agenzia, di mediazione e di rappresentanza corrisposte nel mese precedente. Il codice tributo da utilizzare in questo caso è 1040 con periodo di competenza 01/2018.
Nello stesso modello F24 è possibile pagare anche i contributi INPS dovuti dal datore di lavoro sulle retribuzioni corrisposte nel mese di novembre.

Scadenze fiscali lunedì 26 febbraio 2018: elenchi Intrastat mensili
Lo scadenzario fiscale del mese di febbraio prosegue poi con la scadenza del modello Intrastat.

Scadenza invio telematico elenchi Intrastat mensili Il prossimo lunedì 26 febbraio 2018, infatti, è il termine di scadenza previsto per i contribuenti operatori intracomunitari con obbligo trimestrale e mensile INTRASTAT.

L’adempimento consiste nella presentazione elenchi riepilogativi INTRASTAT delle cessioni e/o prestazioni di servizi intracomunitari effettuati:

nel mese di gennaio per i contribuenti con obbligo mensile, ovvero quelli che effettuano cessioni e/o acquisti intra UE per più di 50.000 euro per trimestre.
Ecco quali sono le modalità di presentazione del modello Intrastat:

presentazione in via telematica all’Agenzia delle Dogane mediante il sistema telematico doganale E.D.I.;
presentazione all’Agenzia delle Entrate mediante invio telematico.
Comunicazioni liquidazioni IVA (Lipe) IV trimestre 2017 in scadenza il 28 febbraio
Le scadenze fiscali del mese di febbraio 2018 si chiudono con l’invio telematico delle comunicazioni IVA delle liquidazioni periodiche, le cosiddette Lipe.

La trasmissione delle comunicazioni trimestrali Iva è un obbligo introdotto dall’articolo 4 del DL 193/2016.

La comunicazione trimestrale Iva deve essere trasmessa telematicamente dal soggetto Iva o dal suo intermediario entro la fine del secondo mese successivo a ogni trimestre a eccezione della comunicazione relativa al 2° trimestre che va presentata entro il 16 settembre.

Per l’invio telematico delle Lipe occorre preparare un file xml che rispetti le specifiche tecniche e che, in particolare, contenga:

i dati identificativi del soggetto a cui si riferisce la comunicazione;
i dati delle operazioni di liquidazione IVA effettuate nel trimestre di riferimento;
i dati dell’eventuale dichiarante.
Per creare il file si può utilizzare l’apposito software di compilazione oppure con un software di mercato, purché il risultato sia conforme alle regole previste dalle specifiche tecniche dell’Agenzia delle Entrate.

Super ammortamento 130% nel 2018: soggetti beneficiari


Il super ammortamento o maxi ammortamento al 130 per cento può essere applicato da «tutte le aziende che investono in beni strumentali strettamente inerenti al core business aziendale», comprendendo in questa definizione tutti i titolari di:

reddito d’impresa;
reddito da lavoro autonomo (tranne i contribuenti in regime forfetario).
L’applicazione del super ammortamento o maxi ammortamento al 130 per cento riguarda anche i soggetti che si avvalgono del regime dei minimi ma non del nuovo regime forfetario.

I beni oggetto del super ammortamento sono soltanto quelli il cui coefficiente di ammortamento civilistico è pari o superiore al 6,5%.

Super ammortamento beni strumentali: che significa?
Il super ammortamento al 130% nel 2018 si applica esclusivamente ai beni materiali nuovi e strumentali all’attività esercitata dall’impresa.

Importanti chiarimenti sono stati forniti dall’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 23/E del 26 maggio 2016:

“I beni, conseguentemente, devono essere di uso durevole ed atti ad essere impiegati come strumenti di produzione all’interno del processo produttivo dell’impresa. Sono, pertanto, esclusi i beni autonomamente destinati alla vendita (c.d. beni merce), come pure quelli trasformati o assemblati per l’ottenimento di prodotti destinati alla vendita. Si ritengono ugualmente esclusi i materiali di consumo.”

Il beneficio spetta, oltre che per l’acquisto dei beni da terzi, in proprietà o in leasing, anche per la realizzazione degli stessi in economia o mediante contratto di appalto.

Super ammortamento 2018: nuove regole in Legge di Bilancio 2018.



Il super ammortamento per le imprese che effettueranno investimenti in beni strumentali passa dal 140% al 130% e, tra le novità, vi è l’ufficiale e totale esclusione dei veicoli dalla possibilità di beneficiare dell’agevolazione.

La Legge di Bilancio 2018 ha disposto la proroga del super ammortamento al 130% e dell’iperammortamento al 250% per i beni ad alto contenuto digitale.

Si potrà beneficiare dell’extra deduzione contabile per gli acquisti effettuati fino al 31 dicembre 2018, ovvero entro il 30 giugno 2019 a condizione che entro il 31 dicembre l’ordine risulti accettato dal venditore e siano pagati acconti pari almeno al 20% del costo di acquisizione.

Vediamo di seguito tutte le regole del super ammortamento 2018, le scadenze da rispettare e quali sono nel dettaglio le novità introdotte con la Legge di Bilancio 2018.

Super ammortamento 2018: tutte le regole
I titolari di reddito d’impresa e gli esercenti arti e professioni potranno beneficiare del super ammortamento sulle spese di investimento in beni strumentali nuovi anche nel 2018, per effetto della proroga introdotta in Legge di Bilancio.

Una delle novità previste dalla regole sul super ammortamento 2018 riguarda l’aliquota di maggiorazione del costo di acquisizione del bene, che passa dal 40% al 30%.

In sostanza, per i beni strumentali nuovi acquistati dal 1° gennaio 2018 e il 31 dicembre 2018 il super ammortamento sarà al 130% e non più al 140% così come invece previsto per le spese sostenute entro il 31 dicembre 2017.

Per poter beneficiare del super ammortamento 130% sarà necessario rispettare le seguenti scadenze:

investimenti in beni materiali strumentali nuovi effettuati dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018;
possibilità di completare l’investimento entro il 30 giugno 2019 a condizione che entro la data del 31 dicembre 2018 il relativo ordine risulti accettato dal venditore e sia avvenuto il pagamento di acconti in misura almeno pari al 20 per cento del costo di acquisizione.
Veicoli e altri mezzi di trasporto esclusi dal super ammortamento 2018
Tra le novità previste dalla Legge di Bilancio 2018 vi è l’esclusione del super ammortamento sulle spese d’acquisto di veicoli e altri mezzi di trasporto di cui all’art. 164, comma 1 del TUIR, effettuati a partire dal 1° gennaio 2018 anche qualora strumentali all’attività di impresa.

In sostanza non sarà più possibile beneficiare delle agevolazioni per le spese di acquisto di auto e altri veicoli strumentali all’attività d’impresa, concesse in uso promiscuo ai dipendenti ovvero utilizzate ai fini del trasporto pubblico.

Le regole del super ammortamento tra “nuova e vecchia proroga”
Già con la Legge di Bilancio 2017 il super ammortamento era già stato prorogato per tutto l’anno, in relazione agli investimenti in beni strumentali nuovi effettuati entro il 31 dicembre 2017.

Anche in questo caso era stato consentito ai titolari di reddito d’impresa o esercenti arti e professioni di completare l’investimento successivamente, ed entro il 30 giugno 2018, a condizione che entro la data del 31 dicembre 2017 l’ordine venisse accettato dal venditore e fosse effettuato il pagamento di acconti pari almeno al 20% del costo di acquisizione.

Alla luce della possibilità di completare l’investimento anche successivamente e a seguito della proroga del super ammortamento 2018 vengono a crearsi ad oggi due “binari”:

il super ammortamento resta al 140% per gli investimenti in beni strumentali completati entro il 30 giugno 2018 e restano agevolabili le spese di acquisto di veicoli strumentali o adibiti ad uso pubblico ma l’ordine e il pagamento degli acconti dovrà esser stato effettuato entro il 31 dicembre 2017;
l’agevolazione passa al 130% per gli investimenti in beni strumentali effettuati dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2018 e sono escluse dal super ammortamento le auto aziendali e gli altri veicoli di cui all’art. 164, comma 1 del TUIR.

Detrazione IVA acquisti: nuovi termini dal 2018



L’Agenzia delle Entrate è intervenuta sulla spinosa questione della detrazione IVA sugli acquisti in seguito alle novità introdotte dal DL 50/2017.

Con la circolare numero 1/E del 17 gennaio 2018, infatti, l’amministrazione finanziaria chiarisce quale debba essere il comportamento che i contribuenti devono rispettare per poter portare in detrazione l’IVA sulle fatture acquisti nei termini corretti. La circolare è in linea con l’interpretazione della giurisprudenza europea in materia; tuttavia molti operatori professionali sono rimasti sorpresi rispetto a come poteva essere interpretato letteralmente il combinato disposto dei nuovi articoli 19 e 25 del d.p.r. 633/1972.

Due sono i requisiti fondamentali da rispettare per poter esercitare il diritto alla detrazione IVA sugli acquisti: esigibilità dell’imposta e ricezione della fattura.

Detrazione IVA fatture acquisti dal 2018, ecco i nuovi termini di registrazione previsti dal DL 50/2017 così come esplicitato dalla circolare Agenzia delle Entrate numero 1/E del 17 gennaio 2018:
per esercitare l’esercizio del diritto alla detrazione dell’Iva per le fatture ricevute nei primi mesi del 2018 ma relative ad operazioni effettuate nel 2017, l’Iva può essere detratta attraverso la registrazione nel 2018, secondo le modalità ordinarie, in una delle liquidazioni periodiche di tale anno. In alternativa è possibile effettuare la registrazione tra il 1° gennaio 2019 e il 30 aprile 2019 in un’apposita sezione del registro Iva degli acquisti relativo a tutte le fatture ricevute nel 2018, facendo concorrere l’imposta medesima alla formazione del saldo Iva della dichiarazione relativa al 2018, da presentare entro il 30 aprile 2019;
l’Iva risultante da fatture ricevute nel 2017, relativa ad operazioni effettuate e la cui imposta sia divenuta esigibile in tale anno, può invece essere detratta previa registrazione entro il 31 dicembre 2017, secondo le modalità ordinarie, al più tardi entro il 30 aprile 2018 previa registrazione (tra il 1° gennaio 2018 e il 30 aprile 2018) in un’apposita sezione del registro Iva degli acquisti relativo a tutte le fatture ricevute nel 2017, facendo concorrere l’imposta medesima alla formazione del saldo Iva della dichiarazione 2017.
Di conseguenza, quanto tempo ha il contribuente per poter esercitare il diritto alla detrazione IVA sugli acquisti?

Per effetto dei nuovi articoli 19 e 25 del d.p.r. 633/1972, così come modificati dal DL 50/2017 e “interpretati” (?) dall’Agenzia delle Entrate la detrazione IVA sugli acquisti deve essere esercitata nel periodo d’imposta in cui si verificano i due presupposti dell’esigibilità e della ricezione della fattura, e comunque non oltre il termine di presentazione della dichiarazione IVA dell’anno in cui si sono verificati entrambi i presupposti.

Detrazione IVA fatture acquisti, circolare Agenzia delle Entrate 1/E del 17 gennaio 2018:

Circolare Agenzia delle Entrate numero 1/E del 17 gennaio 2018 Clicca sull’icona per eseguire il download della circolare dell’Agenzia delle Entrate numero 1/E del 17 gennaio 2018
Split payment e detrazione IVA acquisti
La circolare dell’Agenzia delle Entrate numero 1/E del 17 gennaio 2018 interviene anche sul comportamento che deve essere tenuto dalle pubbliche amministrazioni e dagli enti soggetti al meccanismo della scissione dei pagamenti o split payment, che decidono di optare per l’esigibilità dell’imposta anticipata.

In seguito alla riforma operata con il DL 50/2017 tale scelta può essere effettuata in relazione a ciascuna fattura.

Una volta esercitata la scelta, il diritto alla detrazione IVA potrà essere esercitato dalla Pubblica Amministrazione che sia in possesso della fattura di acquisto, nel momento in cui l’imposta diventa esigibile ovvero:

al momento della ricezione della fattura:
o al momento della registrazione della fattura medesima.
Questo è un argomento collegato all'originale su: https://www.money.it/detrazione-iva-acquisti-circolare-agenzia-entrate-1-2018-e3

Imposta di donazione: calcolo, versamento e beni interessati .

Imposta di donazione: calcolo, versamento e beni interessati

L’imposta sulle donazioni si applica sui beni o sui diritti per i quali avviene il trasferimento della proprietà. La donazione infatti non è esente da costi poiché su questa si applica un’imposta calcolata in base al valore dei beni o di eventuali diritti reali interessati dal provvedimento e ai soggetti coinvolti.

Come noto, infatti, la donazione è quell’atto di liberalità con il quale si trasferisce ad altri un bene mobile o immobile. Possono rientrare nella donazione anche la costituzione di un nuovo diritto (per esempio l’usufrutto o l’abitazione), la cessione di un credito o anche la liberazione da un obbligo.

Degli aspetti fondamentali della donazione, come ad esempio su come farla e a chi rivolgersi, ne abbiamo parlato nell’articolo guida di riferimento (clicca qui per consultarlo) mentre qui ci soffermeremo sull’aspetto economico di questo strumento per il trasferimento della proprietà di un bene o della titolarità di un diritto.

Di seguito risponderemo alla domanda “quanto costa la donazione” facendo chiarezza su tutte le regole per il calcolo dell’imposta.

Donazione per atto pubblico
Per la donazione è richiesta, a pena di nullità, la forma dell’atto pubblico. Tuttavia, le donazioni che hanno per oggetto somme di denaro o altre cose di modico valore sono valide anche con la sola consegna.

Per effettuare la donazione è necessario il versamento di un’imposta per la quale l’importo varia a seconda del rapporto di parentela tra donante e destinatario della donazione. In particolare, a seconda del rapporto esistente tra i soggetti coinvolti, sono previste aliquote diverse ed eventuali franchigie, che rendono tassabili le donazioni per la parte eccedente il loro valore. Questo significa che, al di sotto di questi valori, la donazione non viene tassata.

L’imposta si applica sul valore del bene o dei diritti che sono oggetto di trasferimento, ivi, compreso il caso di donazione di beni situati all’estero, qualora il beneficiario sia residente in Italia.

Beni sui quali si applica l’imposta
L’imposta si applica solamente quando la donazione interessa determinati beni. Si tratta delle stesse categorie sulle quali si applica l’imposta di successione, quali:

beni immobili;
beni mobili di qualsiasi tipo;
azioni e le quote di partecipazioni in società che hanno la sede legale, l’amministrazione o il loro oggetto principale in Italia;
obbligazioni e gli altri titoli (ad esempio, i titoli di Stato);
crediti, le cambiali, i vaglia cambiari e gli assegni, se emessi da soggetto residente in Italia;
liberalità indirette, cioè quegli atti che configurano una donazione anche se non formalizzata come il pagamento di un debito altrui o la rinuncia alla rivalsa). l’imposta sulle donazioni si applica anche ai titoli di Stato.
Esenzioni
Ci sono delle categorie di beni, però, sui quali non si applica l’imposta. Ad esempio, sono escluse le donazioni a favore dei soggetti pubblici, quali:

Stato;
Regioni;
Province;
Comuni;
altri Enti Pubblici.
Ne sono escluse anche le Onlus legalmente riconosciute e i partiti politici. Anche sugli autoveicoli iscritti al PRA non si applica l’imposta di donazione, così come per i beni mobili che sono considerati di modico valore.

Infine, sono esenti da imposta di donazione le aziende trasferite dall’imprenditore ai figli, ma solo quando l’esercizio dell’attività prosegue per un periodo di almeno 5 anni.

Calcolo imposta di donazione
L’imposta è dovuta dal beneficiario della donazione tenendo conto delle seguenti aliquote e franchigie ( ossia le soglie al di sotto delle quali l’imposta non è dovuta):

4% (oltre la franchigia di €. 1.000.000,00 per ogni beneficiario) se beneficiari sono il coniuge ed i parenti in linea retta;
6% (oltre la franchigia di €. 100.000,00 per ogni beneficiario) se beneficiari sono i fratelli o le sorelle;
ancora 6%, ma senza franchigia, se beneficiari sono i parenti entro il quarto grado, gli affini in linea retta e gli affini in linea collaterale entro il terzo grado;
8%, senza franchigia, se beneficiari sono soggetti diversi da quelli di cui ai punti precedenti.
Ci sono delle agevolazioni per le persone soggette da handicap introdotte con l’approvazione della Legge 104. Nel dettaglio, al soggetto portatore di grave handicap l’imposta di donazione si applica solo sulla parte del valore dei beni donati che supera la franchigia di €. 1.500.000,00 (con le aliquote del 4%, 6% o 8% in relazione al grado di parentela/affinità esistente tra donante e donatario).

Come si versa l’imposta
Come anticipato, affinché la donazione sia valida questa deve essere fatta in presenza del notaio. È questo che ha il compito di redigere l’atto, di registrarlo all’Ufficio delle Entrate e a provvedere al versamento dell’imposta di donazione di quella di registro (pari a 200€).

Inoltre, se la donazione ha come oggetto beni immobili, sono dovute anche le imposte di tipo ipotecaria e catastale nella misura rispettiva del 2% e dell’1% (€ 50,00 con decorrenza 1° gennaio 2014, se «prima casa»).

L’imposta sulle donazioni va versata contestualmente alla registrazione dell’atto.

Insegnanti e personale ATA possono avere il secondo lavoro? Scopri la risposta in quest'articolo

Sia il personale docente che ATA assunto con contratto a tempo indeterminato da un istituto scolastico può avere un secondo lavoro, ma come per tutti i dipendenti pubblici ci sono degli obblighi e dei divieti da rispettare.

Ci sono dei lavori, infatti, che sono incompatibili con un impiego nella pubblica amministrazione e come tali non possono essere effettuati nemmeno da insegnanti e personale ATA.

La normativa in merito è piuttosto articolata poiché il primo decreto in cui sono indicate le norme sul secondo lavoro per i dipendenti pubblici risale al 1957 e negli anni successivi ci sono stati diversi provvedimenti del legislatore che ne ha modificato alcuni aspetti.

Di seguito, analizzando tutti i provvedimenti che disciplinano le norme sul doppio lavoro dei dipendenti pubblici faremo chiarezza su quali sono gli obblighi che il personale impiegato in una scuola pubblica deve rispettare per non rischiare una sanzione disciplinare.

Quali lavori non possono fare i dipendenti pubblici?
Ai dipendenti pubblici viene riconosciuta la possibilità di essere impiegati in un secondo lavoro, ma nel rispetto di condizioni ben precise. Ad esempio, l’articolo 60 del DPR 3/1957 stabilisce che i seguenti lavori sono incompatibili con un incarico nella Pubblica Amministrazione:

esercizio del commercio e dell’industria;
impieghi alle dipendenze di privati;
coprire un altro incarico nella Pubblica Amministrazione (salvo nei casi in cui è stabilito dalla legge);
coprire una carica in una società costituita a fine di lucro.
Quindi, insegnanti e personale ATA non possono essere titolari di un’attività imprenditoriale, né possono prendere parte come soci ad una delle seguenti società:

in nome collettivo;
in accomandita semplice;
semplici.
L’unico caso in cui si può prendere parte ad una società è quando la responsabilità del socio è limitata (o dalla legge o dall’atto costitutivo). Allo stesso tempo però non si può essere amministratori delegati di una società di capitali (anche se a responsabilità limitata).

Sono soggetti a questo divieto anche i dipendenti della scuola pubblica, quali insegnanti, collaboratori scolastici e presidi. L’unica eccezione è rappresentata dal personale impiegato part-time, per il quale è intervenuto il DPCM 117/89 le la successiva Legge 662/96.

Quali lavori possono fare gli impiegati part-time?
I suddetti provvedimenti riconoscono ai dipendenti pubblici con contratto part-time il diritto di svolgere un’altra attività lavorativa, sia essa subordinata o autonoma.

Tuttavia per poter esercitare il doppio lavoro bisogna chiedere l’autorizzazione all’amministrazione di appartenenza.

Solo dopo che questa avrà accertato che il secondo lavoro non arreca un pregiudizio alle esigenze di servizio del dipendente e che non sussistono dei fattori di incompatibilità di incarico il dipendente pubblico potrà avviare la seconda attività lavorativa.

Gli insegnanti possono fare ripetizioni?
Le ripetizioni private sono una tipologia di lavoro accessorio, quindi non sono riconducibili alle tipologie contrattuali tipiche del lavoro subordinato o autonomo.

Come tali non rientrano nelle attività professionali vietate ai dipendenti pubblici, quindi sia gli insegnanti che il resto del personale scolastico possono seguire privatamente uno studente dandogli ripetizioni.

Ci sono comunque degli obblighi e dei limiti da rispettare: ad esempio, anche per le ripetizioni private gli insegnanti devono chiedere il permesso al Dirigente Scolastico dell’istituto di appartenenza, indicando il nome e la scuola di provenienza dello studente al quale si vogliono impartire lezioni private.

C’è poi da rispettare il regime di incompatibilità, ossia il principio per cui nessun insegnante può impartire ripetizioni ad un alunno del proprio istituto. Nessun alunno infatti può essere giudicato da un docente dal quale ha ricevuto lezioni private e qualsiasi prova d’esame - o scrutinio - che non rispetta questi divieti è da considerare nullo.Qualora un insegnante o un collaboratore scolastico non rispetti i suddetti divieti riceverà dal proprio Dirigente Scolastico una diffida, con la quale viene invitato a mettere fine al secondo lavoro.

Se nonostante la diffida si continua a ricoprire il doppio incarico l’amministrazione può applicare la più severa delle sanzioni disciplinari: il licenziamento per giusta causa.

Bonus asilo nido 2018, come chiedere all’Inps il contributo da mille euro per la frequenza dell’asilo nido


Dal 29 gennaio 2018 è possibile richiedere il bonus nido. Si tratta di un contributo di massimo 1.000 euro che spetta ai figli nati o adottati dal 1° gennaio 2016 per il pagamento delle rette per la frequenza di asili nido pubblici e privati e per pagare forme di assistenza domiciliare in favore di bambini con meno di tre anni affetti da gravi patologie croniche. La fruizione del bonus è sganciata dall’accertamento dell’Isee o dei redditi Irpef del genitore.

COS’È- Il bonus asilo nido è un’agevolazione costituita da un assegno di massimo 1.000 euro l’anno che verrà erogato alle famiglie per sostenerle economicamente nel pagamento della retta e delle spese d’iscrizione ai nido pubblici o privati. È erogato direttamente dall’INPS con pagamenti con cadenza mensile. I genitori saranno rimborsati dell’importo sostenuto per iscrizione e rette dell’asilo nido, fino ad un massimo di 1.000€ annui, per un massimo di 90,91 euro mensili.

REQUISITI – La richiesta può essere presentata da un genitore di un bambino nato o adottato dal 1° gennaio 2016. A differenza del bonus bebè, per cui solo chi rientra in determinati limiti ISEE può richiederlo, il nuovo bonus nido spetta a tutte le mamme e alle famiglie che iscrivono i figli al nido, indipendentemente dal reddito.

DOMANDA – La domanda potrà essere presentata dal 29 gennaio 2018 al 31 dicembre 2018 esclusivamente in via telematica mediante una delle seguenti modalità:

WEB – Servizi telematici accessibili direttamente dal cittadino tramite PIN dispositivo attraverso il portale dell’Istituto. Parimenti, il cittadino potrà utilizzare, per l’autenticazione, il Sistema Pubblico di Identità Digitale (SPID) o la Carta Nazionale dei Servizi (CNS);
Contact Center Integrato – numero verde 803.164 (numero gratuito da rete fissa) o numero 06 164.164 (numero da rete mobile con tariffazione a carico dell’utenza chiamante);
Enti di Patronato attraverso i servizi offerti dagli stessi.
Nella domanda bisogna specificare se si intende richiedere il contributo per l’asilo nido o il contributo per forme di supporto presso la propria abitazione (nel caso di bambino affetto da gravi patologie croniche).
Se il bambino frequenta un asilo privato autorizzato, bisogna indicare nella domanda gli estremi del provvedimento autorizzativo.

DOMANDA PER PIU’ FIGLI – In caso di più figli è possibile presentare una domanda per ciascuno di essi cumulando, pertanto, gli importi disponibili. Sulle domande pesa, comunque, un vincolo di bilancio che per il 2018 è pari a 250 milioni di euro Nel caso in cui, a seguito del numero delle domande presentate, venga raggiunto – anche in via prospettica – il suddetto limite di spesa, l’Inps non prenderà in considerazione le ulteriori domande. L’ordinamento delle domande, ricorda l’Inps, avverrà in base alla data di presentazione telematica della domanda.

voglio FARE o voglio IMPARARE A FARE?


Questa domanda non serve nel caso di servizi professionali specifici, per esempio in ambito fiscale o legale, ma è fondamentale quando l’azienda si trova di fronte a scelte strategiche importanti. Scelte che possono riguardare la strategia globale dell’impresa, o specifiche aree funzionali (il commerciale, il marketing, le operations, le risorse umane e così via).

In alcuni casi, quando l’azienda si trova di fronte a problematiche o opportunità alle quali far fronte in tempi molto stretti, la scelta del fare è obbligata, e quindi la soluzione ottimale è affidarsi a un manager in grado di portare velocemente dei risultati.

Quando parlo di manager intendo sia dipendente dell’azienda, a tempo determinato o indeterminato, che temporary manager. Quest’ultimo, pur avendo un rapporto di collaborazione professionale simile a quello del consulente, è in sostanza un manager a tutti gli effetti in termini di deleghe e poteri a lui concessi.

La scelta dell’imparare a fare, e quindi della consulenza, presuppone un obiettivo più profondo che risolvere un problema o sfruttare delle opportunità, e questo obiettivo è il miglioramento del funzionamento dell’organizzazione.

Nel perseguimento di questo obiettivo il consulente deve bilanciare l’attenzione ai risultati di breve periodo con l’efficienza nel lungo periodo. Per fare questo deve usare le sue conoscenze per trasmettere al cliente la capacità di diagnosticare i problemi, di affrontarli e di partecipare attivamente alla loro soluzione.

Il consulente che, come il sottoscritto, proviene da una lunga esperienza manageriale, ha sicuramente il vantaggio di aver vissuto in prima persona quello che l’imprenditore gli chiede di fare, specialmente se si rivolge ad aziende di settori nei quali ha esperienza.
Per questi consulenti è forte la tentazione di volere portare dei risultati fin dall’inizio del rapporto di consulenza, gettandosi anima e corpo in attività che danno un risultato immediato. Di conseguenza questo consulente tende a comportarsi come qualcuno che “dà disposizioni” e non che “insegna a fare”.

E’ fondamentale invece che prima di iniziare il rapporto di consulenza venga chiarita e condivisa la risposta alla domanda sul fare o imparare a fare, e se l’azienda non se l’è posta è necessario che il consulente stesso la guidi a sapere quale tipo di aiuto deve cercare.

Nella sua attività quotidiana il consulente deve sempre avere in mente la risposta a questa domanda, e di fronte a ogni situazione concreta deve avere la sensibilità di capire quando è il caso di dare consigli o è invece più opportuno porre le giuste domande.

Il fine ultimo di un rapporto di consulenza fruttuoso è fare in modo che l’azienda non abbia più bisogno del consulente. Ma stiamo pur certi che se azienda e consulente hanno investito per costruire un rapporto valido si avranno i migliori presupposti per identificare altri progetti su cui collaborare.

Fare della consulenza una professione - 2

Le caratteristiche vincenti di un buon consulente

La prima caratteristica che ci fa capire al volo se saremo o no dei bravi consulenti è la nostra predisposizione alla crescita professionale e all'autoformazione quotidiana. Se si desidera progredire rapidamente, è necessario impegnarsi un po' ogni giorno, ampliando le nostre conoscenze, parlando con i colleghi con più esperienza e mettendoci alla prova continuamente per verificare i nostri progressi.

I giorni sprecati, i mesi e gli anni buttati via senza crescere possono essere molto gravi per la carriera di un consulente.



Un'altra caratteristica estremamente importante per chi si occupa di consulenza è l'essere realisti ma con una tendenza all'ottimismo.



Ancora: un bravo consulente è in grado di tenere sotto controllo il proprio ego. Questo non significa che dovremo mostrarci insicuri davanti ai clienti ma solamente che questa sicurezza dovrà derivare dalle nostre conoscenze e da una reale fiducia in noi stessi e nelle nostre capacità.

Darsi delle arie da consulente d'attacco che poggiano sul vuoto della propria mancanza di preparazione, invece, non potrà che crearvi grossi problemi.



Un'altra caratteristica davvero fondamentale per coloro che si vogliono dedicare alla consulenza è l'abilità di creare connessioni con gli altri professionisti. Nessun consulente è un'isola perché arriva sempre un momento nella nostra vita professionale in cui abbiamo bisogno di un confronto con gli altri e di un aiuto.

Fare della consulenza una professione - 2

Qualsiasi sia il nostro lavoro dobbiamo amarlo!



"Il solo fatto che quel lavoro lo stiamo facendo, vuol dire che non averlo ed essere disoccupati sarebbe peggio"

Qualsiasi sia il nostro lavoro, dobbiamo amarlo; fare per sei, sette, otto, nove ore al giorno un lavoro che si odia è terribile. Noi dobbiamo essere i padroni di noi stessi, della nostra mente e della nostra anima, anche quando lavoriamo: questo è l’unico mezzo per non odiare il nostro lavoro, anche quando non è quello che noi vorremmo. Il solo fatto che quel lavoro lo stiamo facendo, vuol dire che non averlo ed essere disoccupati sarebbe peggio, quindi la frase magica dell’ottimismo si può inserire nel discorso.
La frase magica è “potrebbe andare peggio”.

Il concetto di lavoro è che stiamo vendendo il nostro tempo in cambio del denaro necessario a sopravvivere, certo, se applichiamo questa definizione, siamo molto ben avviati a una vita di rancore e depressione cronica.
Ogni tanto andiamo indietro con lo sguardo alla storia: abbiamo una qualità di vita superiore a quella che in altri secoli era stata di re e grandi aristocratici. Possiamo non soffrire di mal di denti, siamo certi di non morire né di vaiolo né di peste, né di peritonite, come il bambino del Re Sole. Enrico VIII Tudor, è morto con le piaghe aperte nelle gambe e i vermi dentro a causa del diabete. Noi abbiamo antibiotici e insulina. Fa parte anche questo della nostra ricchezza. Cominciamo ad essere grati al nostro lavoro e ad una società che ci dà del denaro, permettendoci la sopravvivenza nostra e di quelli che amiamo.

Leggi anche: Perché lamentarsi sempre? È più intelligente cercare di essere felici!
Questo non vuol dire non desiderare di migliorare la società e il nostro lavoro, al contrario, ma solo rendendoci conto di quanto già funziona, potremo migliorare tutto.
Diventiamo padroni di noi e del nostro tempo anche quando lavoriamo, anche se facciamo un lavoro umile o dipendente. Come si fa ad ottenere questo miracolo? Lo intuisce Napoleon Hill, scrittore motivazionale, fare il miglio in più, se vi hanno detto di fare dieci miglia, voi fatene undici: cioè fate il vostro lavoro meglio di come è stato richiesto. Che poi è un criterio estratto di peso dalle pagine del Vangelo. Se mi pagano per fabbricare trenta tazzine in una giornata, io sto eseguendo gli ordini degli altri, ma se ne fabbrico trentuno, allora vuol dire che non sono il servo di nessuno, sto eseguendo la mia volontà.

Come recita il Vangelo: se ti chiedono di fare un miglio con il tuo fratello, tu fanne due. E’ un testo che fa parte del manifesto programmatico di Gesù: le Beatitudini, Vangelo di Matteo, cap. 5, v. 41: “E se uno ti costringerà a fare un miglio con lui, tu fanne due”. Ecco la scelta della grandezza, la tua grandezza divina.

Papa Francesco e la sua leadership vincente


Con la celebrazione dei quattro anni dalla sua elezione a Papa, il mondo dell’editoria è tornato a diffondere alcuni testi che parlano di Francesco, delle sue fonti di ispirazione, dei problemi incontrati nel rinnovamento della curia romana o della finanza vaticana, eccetera. Ma in pochi hanno avuto un approccio tanto singolare come quello avuto nel 2014 da Jeffrey A. Kermes, un esperto di leadership.

Kermes è figlio dell’Olocausto, anche se nato a Chicago. La madre e il padre sono incontrati negli Stati Uniti, ma entrambi – di discendenza ebraica – erano in fuga da Hitler. Il suo ambito di lavoro è stata la ricerca sul modo in cui esercitano la propria influenza i responsabili delle grandi imprese industriali, commerciali e di servizi, i leader politici e quelli militari.

Nulla sembrerebbe essere più lontano da un Papa della Chiesa Cattolica. Ma Francesco ha cambiato ogni cosa. Tra cui il punto di vista di un saggista ebreo abituato a scrutare all’interno di aziende e dare consigli ai titolari su come guidarle meglio.

Kermes ha dovuto studiare il cattolicesimo, si è avvicinato alla Chiesa e ha cambiato radicalmente – attraverso il riconoscimento dell’umiltà di Bergoglio – la sua idea di leadership. “La mia visione su Francesco è diversa da quella, per esempio, di un membro praticante della Chiesa cattolica, o di un teologo; guardo attraverso un approccio laico, ed è attraverso questa lente che posso discernere i principi di leadership che sono alla base della predicazione e delle azioni di questo Papa”.

Ecco l’elenco delle lezioni che potrebbe servire ad un padre o una madre di famiglia, ad un uomo d’affari o ad un imprenditore, ad un insegnante, ad un prete…

1. Condurre con umiltà. La chiave è nell’idea che, essendo in una posizione dominante, non vi si dovrebbe ricorrere per schiacciare gli altri. Piuttosto, per accompagnare gli altri nel proprio compito vitale. Il dialogo è la porta per mostrare ciò che l’altro significa per me.

2. Odora come le tue pecore. È nota la frase del Papa sui pastori con ”l’odore delle pecore”. Ma non vale solo per i sacerdoti. È principalmente per i leader. Profumare come le proprie pecore è sinonimo di amore per il proprio gregge.

3. Chi sono io per giudicare? Forse questa è la frase di Papa Francesco più conosciuta al mondo: “Se qualcuno è gay, cerca Dio ed è di buona volontà… chi sono io per giudicare?” Questo concetto dà voce ad una delle più sottili ed efficaci forme di leadership, perché il leader non giudica, valuta.

4. Non cambiare, reinventa. Molti sono dell’idea che papa Francesco “sta cambiando tutto” all’interno della Chiesa. In realtà, non è cambiato nulla: ha reinventato il modo di vivere il cattolicesimo. Dal conclave che lo avrebbe scelto come Papa fino ad oggi il suo metodo è lo stesso: la misericordia.

5. Rendi l’inclusione la priorità assoluta. Una delle forme meno studiate di leadership è proprio quella di Francesco: includere tutti, sia quelli che sono dentro la Chiesa e chi ne è fuori, chi è “giusto” e chi è peccatore. Come? Chiedendo a tutti di pregare per lui.

6. Evita di isolarti. Il primo gesto del Papa è stato di andare a vivere fuori dagli appartamenti papali. Hai bisogno di avere contatto con la gente, altrimenti ci si ammala (e lo psichiatra ha detto che questo “costerebbe un sacco di soldi”). Nessuna leadership può essere esercitata da un’isola.

7. Preferisci il pragmatismo all’ideologia. In diverse occasioni, Francesco ha dato una chiave per condurre gli esseri umani: la realtà è al di sopra dell’idea. Quando agiamo in modo contrario, anche nella missione cattolica, mettiamo il carro davanti ai buoi.

8. Fa tuo l’approccio del decision making. Questo è dove Krames si arrende di fronte a Francesco. Dice ai leader di usare il ”metodo” del Papa per prendere decisioni nelle proprie attività (a casa, sul posto di lavoro, a scuola). Qual è? Consultare gli altri, discernere, prendersi del tempo.

9. Conduci la tua organizzazione come un ospedale da campo. Lo ha detto il Papa: la Chiesa è un ospedale da campo. In primo luogo, guarisce le ferite senza chiedere. Dopo accompagna. Infine confida nella libertà di tutti. Le ferite guariscono con amore. E l’amore non chiede.

10. Vivi su una frontiere. La frontiera non è un luogo fisico, non è una linea o un muro. È un modo di essere testimoni. È la combinazione – dice Krames – tra un’attitudine mentale positiva e aperta e il coraggio e l’audacia di uscire dalla propria zona di comfort. La frontiera è tutto ciò “che non gira intorno a te”.

11. Affronta le avversità faccia a faccia. Papa Francesco è convinto che se si commette un errore, la cosa peggiore che si possa fare è nasconderlo. Il leader può commettere errori. L’uomo è un peccatore. Il leader deve riconoscere il suo errore (per il bene del gruppo), come il peccatore deve riconoscere la sua mancanza (per il bene della sua anima).

È morto, a 91 anni, l’imprenditore svedese Ingvar Kamprad, fondatore di Ikea.

Il chiodo fisso di Ingvar è uno solo: prodotti a basso prezzo
Ingvar fonda Ikea a 17 anni e non dimentica le origini neppure quando sceglie il marchio: IK sono le iniziali del suo nome e cognome, EA sono quelle della fattoria e del villaggio in cui è nato e cresciuto.

Il licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo: quando e come si può fare, quando e come fare causa. Cos’è cambiato con il Jobs Act.

La giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo: ecco le due ragioni per cui può scattare un licenziamento disciplinare. Una misura che il datore di lavoro prende nei confronti dei dipendente la cui condotta fa venire meno il vincolo di fiducia tra il lavoratore e l’azienda, un vincolo indispensabile per poter continuare un qualsiasi rapporto di lavoro.
Per quanto in entrambi i casi si parli di licenziamento disciplinare, tra la giusta causa ed il giustificato motivo soggettivo ci sono delle differenze importanti, sia da un punto di vista, diciamo così di sostanza (più grave la prima rispetto al secondo), sia per le conseguenze che comportano l’uno e l’altro tipo di licenziamento (cessione del rapporto in tronco nel primo caso, licenziamento con preavviso nel secondo).

Indice

1 Il licenziamento disciplinare per giusta causa
1.1 Quando si arriva ad un licenziamento disciplinare per giusta causa
1.2 Come deve comportarsi il datore di lavoro
1.3 Elementi oggettivi di valutazione di un licenziamento disciplinare per giusta causa
1.4 Quando non si può licenziare per giusta causa
1.5 Come fare e come contestare il licenziamento disciplinare per giusta causa
1.6 Come valuta il giudice il licenziamento disciplinare per giusta causa
2 Il licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
2.1 Quando si arriva ad un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
2.2 Come fare un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
2.3 Come contestare un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
3 Sanzioni per licenziamento disciplinare illegittimo
4 Licenziamento disciplinare di dipendente assunto prima del Jobs Act
5 Licenziamento disciplinare di dipendente assunto dopo il Jobs Act

Il licenziamento disciplinare per giusta causa
La giusta causa che motiva un licenziamento disciplinare riguarda un comportamento (anche extra-aziendale, cioè al di fuori della sede di lavoro) talmente grave da non consentire la normale prosecuzione del rapporto anche a livello provvisorio. Si parla, ad esempio, di un furto in azienda, di un grave episodio di insubordinazione, di un’aggressione a un collega, di un’azione compiuta volutamente per nuocere la società per la quale il dipendente lavora, di un inadempimento dei propri obblighi contrattuali o extracontrattuali. In casi come questi, il datore di lavoro può recedere dal contratto senza preavviso e lasciare il lavoratore immediatamente a casa, in quanto qualsiasi altra misura non sarebbe sufficiente a tutelare l’azienda . Nemmeno se il dipendente fosse spostato in un altro reparto o adibito ad un’altra mansione

Quando si arriva ad un licenziamento disciplinare per giusta causa
Ecco alcuni dei comportamenti di un dipendente che possono portare il suo datore di lavoro ad un licenziamento disciplinare per giusta causa:

abbandono del posto di lavoro, quando dall’assenza del dipendente può derivare un rischio per l’incolumità delle persone o per la sicurezza degli impianti o quando si tratta di un addetto alla custodia o alla sorveglianza ;
assenza ingiustificata, nel caso non venisse comunicata oppure venisse giustificata in modo non veritiero (dico che devo fare una visita medica e, invece, me ne vado al mare);
comportamenti connessi alla malattia, quando il lavoratore:
si rifiuta di rientrare al lavoro dopo una visita medica secondo la quale potrebbe riprendere l’attività;
lavora per terzi durante il periodo di malattia, pregiudicando così la sua guarigione;
si rifiuta senza motivo di sottoporsi alla visita medica di controllo e ha dei provvedimenti disciplinari alle spalle;
non è in casa durante la visita fiscale di controllo della malattia;
corregge la data del rientro sul certificato medico per allungare il periodo di malattia;
insubordinazione, quando, nel rifiutare una richiesta del datore di lavoro, reagisce in modo fisico o verbale e si rifiuta di abbandonare l’ufficio dopo essere stato sospeso;
divulgazione di fatti non certi e tesi a ledere l’immagine del datore di lavoro, oppure diffamazione via e-mail con espressioni che vanno oltre il diritto di cronaca;
reato commesso nella vita privata che fa venir meno la fiducia tra dipendente e datore di lavoro;
reato commesso nell’esercizio delle proprie mansioni dentro o fuori il posto di lavoro (furto, appropriazione indebita, alterazione di documenti, ecc.);
rifiuto immotivato di eseguire una prestazione di competenza del dipendente per l’azienda;
svolgimento di attività durante la cassa integrazione se comporta il venir meno della fiducia;
la violazione dei doveri di diligenza, riservatezza e obbedienza (tentativo di truffa, ferie usufruite quando non erano state autorizzate, sottrazione e divulgazione di documenti riservati, abuso del telefono o dell’auto aziendale, ecc.);
violazione del dovere di fedeltà quando il fatto comporta un effettivo danno all’azienda (comprende anche la concorrenza sleale al datore di lavoro).

Come deve comportarsi il datore di lavoro
Naturalmente, affinché il licenziamento disciplinare per giusta causa abbia valore anche davanti ad un giudice, il datore di lavoro deve prima verificare che la condotta del dipendente sia, effettivamente, tale da minare la fiducia e la prosecuzione del rapporto di lavoro anche in via provvisoria
Deve, quindi, tenere conto:
del tipo di rapporto tra il lavoratore e l’azienda;
della posizione professionale e del grado di responsabilità del lavoratore  in quanto può essere diseducativo o disincentivante per altri dipendenti;
del grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente;
delle circostanze in cui si è verificato il fatto e delle sue motivazioni;
di qualsiasi altro elemento che possa incidere negativamente sul rapporto di lavoro.

Elementi oggettivi di valutazione di un licenziamento disciplinare per giusta causa
La fondatezza di un licenziamento disciplinare per giusta causa si basa anche su una serie di elementi soggettivi come:
precedenti mancanze da parte del dipendente non punite dal suo datore di lavoro. L’azienda è legittimata a licenziare se viene commessa di nuovo la stessa infrazione
Insomma, ti passo l’assenteismo una, due, tre, quattro volte ma alla quinta ti licenzio in tronco;
il licenziamento disciplinare per giusta causa è legittimo anche in assenza di altre sanzioni disciplinari: ti becco mentre stai rubando dai cassetti dei colleghi e non ho bisogno (nè voglia) di darti una seconda occasione;
l’accumularsi di diverse sanzioni disciplinari;
la recidiva in quanto circostanza aggravante.
Quando non si può licenziare per giusta causa
Ci sono alcuni casi in cui il licenziamento disciplinare per giusta causa, indipendentemente dalle motivazioni, non può essere adoperato. Si tratta di quei casi in cui la cessione del rapporto di lavoro odora di discriminazione politica, razziale, religiosa, di lingua o di orientamento sessuale. In altre parole, non si può licenziare un dipendente per giusta causa perché appartiene al partito che sta antipatico al datore di lavoro, perché musulmano o buddista, perché gay.

Non è accettabile, nemmeno, il licenziamento disciplinare per giusta causa nel periodo connesso alla maternità o al matrimonio. Se un dipendente si sposa o una lavoratrice resta incinta, entrambi hanno il diritto a mantenere il proprio posto di lavoro. Se l’azienda provasse ad allontanarli, il licenziamento verrebbe dichiarato nullo ed il giudice imporrebbe al datore di lavoro di riprenderli in servizio.

Come fare e come contestare il licenziamento disciplinare per giusta causa
Accertata la ragione che porta al licenziamento disciplinare per giusta causa, il datore di lavoro deve comunicare per iscritto la propria decisione di recedere immediatamente il contratto, indicando nella lettera (da inviare per raccomandata a/r) i motivi del licenziamento. Quest’ultimo aspetto è fondamentale per permettere al dipendente di contestare – se ritenesse di avere degli elementi sufficienti per farlo – la cessione del rapporto di lavoro.

In quest’ultimo caso, il lavoratore deve impugnare il licenziamento entro 60 giorni dal momento in cui ha ricevuto la comunicazione con le motivazioni argomentate dall’azienda.
Entro quel termine, dunque, il dipendente deve inviare al datore di lavoro una lettera (sempre meglio per raccomandata a/r) con la quale comunica di voler contestare il licenziamento.
Fatto questo, il lavoratore avrà altri 180 giorni di tempo (pena l’insussistenza della contestazione) per:
depositare nella cancelleria del Tribunale il ricorso con cui impugna il licenziamento;
chiedere al datore di lavoro un tentativo di conciliazione presso la Direzione territoriale del lavoro di competenza. Se il datore di lavoro rifiuta questo passaggio, il lavoratore ha 60 giorni di tempo per depositare il ricorso presso la cancelleria.
Come valuta il giudice il licenziamento disciplinare per giusta causa
Quando un giudice valuta un licenziamento disciplinare per giusta causa, tiene conto di alcuni elementi di base come le normali regole del vivere civile, l’oggettivo interesse dell’azienda e gli accordi in materia siglati nel contratti nazionali di categoria oppure nei contratti individuali.
Tuttavia, questi accordi non sono vincolanti ma semplicemente indicativi per il giudice a meno che prevedano una sanzione conservativa e non il licenziamento disciplinare
Il magistrato, infatti, dovrà sempre fare riferimento alla legge

In questo modo, il giudice valuterà se la sanzione prevista nel contratto di categoria è congrua con il caso specifico che gli viene presentato. Ma se la condotta per la quale il dipendente è stato licenziato per giusta causa è punibile dal contratto collettivo o dal codice disciplinare solo con una sanzione conservativa, il licenziamento sarà dichiarato illegittimo. E’ il caso del lavoratore che era stato licenziato per essersi recato al lavoro durante il periodo di malattia ed essersi rivolto al datore di lavoro con espressioni minacciose parlando in dialetto locale. Poiché questo atteggiamento prevedeva sul contratto nazionale una sanzione conservativa, il licenziamento è stato dichiarato illegittimo

Il licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
Diversamente da quello per giusta causa, il licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo è provocato da un inadempimento notevole degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, ma non così grave da non poter continuare il rapporto di lavoro anche in modo provvisorio. Quindi, che cosa significa il licenziamento disciplinare per giustificato motivo oggettivo? Significa che quella mancanza spingerà l’azienda a cessare il rapporto di lavoro ma non in tronco, cioè, con il dovuto preavviso.
Altra differenza con il licenziamento disciplinare per giusta causa: nel caso del giustificato motivo soggettivo, la condotta extralavorativa del dipendente non può essere un motivo valido per chiudere il rapporto di lavoro. L’eventuale mancanza o inadempimento, dunque, deve accadere nell’ambito del lavoro.

Quando si arriva ad un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
Ecco alcuni esempi di condotte che possono portare ad un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo:
abbandono ingiustificato del posto di lavoro (esclusi i casi di giusta causa visti in precedenza);
insubordinazione attraverso ingiurie, minacce o percosse ai danni dei superiori
critiche scorrette o non conformi alla verità verso il datore di lavoro;
rifiuto di eseguire mansioni di livello inferiore a parità di retribuzione in alternativa al licenziamento
violazione dei doveri di diligenza, di riservatezza e di obbedienza come:
uso del cellulare aziendale per fini personali;
uso dell’e-mail aziendale per l’invio di comunicati sindacali in cui si esprimono forti critiche all’azienda;
mancanza del dovere di cautela;
violazione del dovere di fedeltà.

Come fare un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
Il licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo può essere applicato a qualsiasi tipo di rapporto di lavoro subordinato tranne a quello di tipo domestico. Significa che, tranne per quest’ultimo caso, non ci sono dei limiti relativi a numero di dipendenti o di tipologia di datore di lavoro (che sia o meno un imprenditore) o di lavoratore.
L’azienda che ricorre ad un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo deve seguire una procedura a garanzia del lavoratore per le sanzioni conservative. Significa che il datore di lavoro deve compiere questi passi:
affissione del codice disciplinare;
contestazione dell’infrazione (immediata, specifica e immutabile);
termine a difesa;
giustificazioni del lavoratore;
audizione difensiva se richiesta;
irrogazione della sanzione o accoglimento delle giustificazioni o inattività del datore di lavoro;
esecuzione della sanzione.
L’azienda può contestare l’inadempienza al lavoratore attraverso una comunicazione consegnata a mano o per raccomandata a/r (più consigliabile ai fini probatori). Nella lettera, l’azienda deve manifestare in modo inequivoco l’intenzione di ritenere la condotta del lavoratore come illecito disciplinare e dovrà rispondere a questi requisiti:

immediatezza;
precisione (in modo da consentire al lavoratore eventuali contestazioni sulla sostanza dei fatti contestati);
il divieto di intimare un nuovo provvedimento disciplinare per lo stesso fatto già contestato e sanzionato (anche se quest’ultimo può confermare la gravità del comportamento del dipendente).
L’onere di prova ricade sul datore di lavoro, il quale può anche sospendere in via cautelare il lavoratore se la presenza di quest’ultimo in azienda dovesse risultare incompatibile con il procedimento disciplinare o penale.

Come contestare un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo
Il lavoratore che ha ricevuto una lettera di licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo può produrre le proprie difese in forma orale o scritta (anche assistito da un rappresentante sindacale) entro 5 giorni dalla data in cui ha ricevuto la comunicazione  e, comunque, entro l’applicazione della sanzione disciplinare sempre che il contratto nazionale di categoria non abbia stabilito tempi più lunghi.
Il datore di lavoro è tenuto a sentire di persona il dipendente se quest’ultimo lo chiedesse. I suoi chiarimenti per iscritto consumano il suo diritto di difesa solo se dalla dichiarazione emerge la rinuncia ad essere ascoltato o quando la richiesta appare, sulla base delle circostanze, ambigua o priva di univocità
Altri due requisiti indispensabili per legittimare un licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo: la buona fede e la correttezza. Non è accettabile, ad esempio, inviare una comunicazione il venerdì sera quando poi ci sono sabato, domenica e, magari, un martedì festivo che comporta un ponte con chiusura aziendale.
Arrivati al punto di rottura, la procedura per impugnare il licenziamento disciplinare per giustificato motivo soggettivo davanti a un giudice è la stessa spiegata in precedenza per il licenziamento per giusta causa.

Sanzioni per licenziamento disciplinare illegittimo
Il licenziamento disciplinare senza giusta causa o senza giustificato motivo è illegittimo. Le relative sanzioni al datore di lavoro sono diverse a seconda dalla data in cui è iniziato il rapporto di lavoro, cioè se è precedente o successiva all’entrata in vigore del Jobs Act

Licenziamento disciplinare di dipendente assunto prima del Jobs Act
Per i contratti sottoscritti prima dell’entrata in vigore del Jobs Act, quindi prima del 7 marzo 2015, in caso di licenziamento disciplinare si fa riferimento alla Riforma Fornero  che contiene alcune riforme all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Per le imprese con più di 15 dipendenti nello stesso Comune (o più di 5 nel settore agricolo) o che complessivamente hanno 60 dipendenti in più Comuni, in caso di licenziamento disciplinare illegittimo il datore di lavoro dovrà pagare un’indennità da 12 a 24 mensilità in base all’ultima retribuzione globale dovuta al lavoratore se il rapporto di lavoro si interrompe definitivamente.

Il dipendente può essere reintegrato sul posto di lavoro se:

  1. gli è stato contestato un fatto che non sussiste;
  2. gli è stato contestato un fatto che sussiste ma che è punito con la sanzione e non con il licenziamento disciplinare secondo il contratto di categoria.

A questo punto, il giudice annulla il licenziamento, ordina al datore di lavoro di riprendere in servizio il dipendente e lo condanna a pagargli un’indennità non superiore alle 12 mensilità.

Se il licenziamento avviene in un’azienda di dimensioni più piccole, il reintegro del dipendente non è possibile: il datore di lavoro può essere condannato soltanto al pagamento di un’indennità in base all'anzianità del lavoratore.

Licenziamento disciplinare di dipendente assunto dopo il Jobs Act
Se il licenziamento disciplinare interessa un dipendente assunto dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, quindi dopo il 7 marzo 2015, e viene dichiarato illegittimo, il giudice può condannare il datore di lavoro a pagare soltanto una indennità pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio.
L’indennità non potrà mai essere inferiore a 4 mensilità né superiore a 24 mensilità e non sarà soggetta a contribuzione.

Il lavoratore potrà essere reintegrato solo se viene dimostrata durante la causa l’insussistenza del fatto contestato dall’azienda. In questo caso, oltre al dovere di reintegrare il dipendente, il datore di lavoro verrà condannato anche al pagamento di una indennità risarcitoria calcolata in proporzione all’ultima retribuzione percepita dal lavoratore e corrispondente al periodo che va dalla data del licenziamento illegittimo al giorno della reintegrazione. Deve essere scalata la cosiddetta aliunde perceptum, cioè quello che il lavoratore ha guadagnato nel frattempo altrove oppure quello che avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro, nel caso in cui il dipendente licenziato l’avesse avuta e rifiutata.

Questa indennità risarcitoria non potrà comunque essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del Tfr.
Se il lavoratore licenziato apparteneva a un’azienda con meno di 15 dipendenti per sede (5 nel settore agricolo) o meno di 60 dipendenti globali, il reintegro non sarà possibile e il datore di lavoro potrà essere condannato soltanto ad un’indennità risarcitoria non superiore alle 6 mensilità.

Il datore di lavoro può revocare il licenziamento disciplinare entro 15 giorni dalla comunicazione dell’impugnazione. Il dipendente continuerà a lavorare come se nulla fosse successo, con diritto alla retribuzione maturata anche in quei 15 giorni.

Ma l’azienda può anche decidere di offrire entro 60 giorni dall’impugnazione del licenziamento una sorta di buona uscita (che non fa reddito e che non è soggetta a contribuzione) pari a una mensilità per ogni anno di servizio. Una somma che non deve essere mai inferiore a 2 mensilità né superiore a 18 mensilità. Se il dipendente accetta, il rapporto di lavoro si intende concluso e l’impugnazione del licenziamento viene meno.

Infine, se dopo l’entrata in vigore del Jobs Act l’azienda assume a tempo indeterminato un numero di lavoratori che la porta a superare i 15 dipendenti per sede o i 60 dipendenti complessivi, il licenziamento disciplinare dei lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 viene regolato dal Jobs Act e non dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.

I giovani non possono più aspettare


Il 2017 è stato un anno a due velocità. L’economia italiana è in ripresa e si sono generati nuovi posti di lavoro che hanno fatto lievemente salire il tasso di occupazione. Ma per i ragazzi non è stato fatto ancora abbastanza e sono diversi gli indicatori che ci portano a chiederci se l’Italia sia o meno un Paese per giovani.

Cominciamo dal sistema educativo, così complesso che piuttosto che avvicinare i giovani al lavoro li allontana. Infatti in Italia abbiamo una percentuale di laureati molto bassa rispetto al resto dell’Europa e in generale il nostro percorso di studi è più lungo e non incentiva i ragazzi ad entrare nel mondo del lavoro. Solo il 29% dei giovani sceglie il corso di laurea prendendo in considerazione le statistiche occupazionali, le competenze dei giovani sono ritenute adeguate dal 70% di scuole e università, ma solo dal 43% degli studenti e dal 42% dei datori di lavoro. Questo genera un disallineamento tra competenze richieste dal mercato del lavoro e competenze possedute dai ragazzi che ha come conseguenza la disoccupazione giovanile. Prendendo in considerazione come motivazione alla scelta della facoltà solo i propri interessi e passioni, i ragazzi scelgono indirizzi che non sono in linea con l’offerta di lavoro.

Anche i dati Ocse confermano la stessa fotografia più ampia sul mercato del lavoro: c’è uno “skill mismatch” tra competenze acquisite dai lavoratori e le competenze richieste dal lavoro. I sovraqualificati, ovvero le persone che hanno un set di competenze più ampio rispetto al lavoro richiesto, sono il 12% del lavoratori italiani.

Eppure i posti vacanti, cioè quelli per cui un’impresa sta cercando attivamente un candidato, sono lo 0,8% che in valori assolti rappresenta un numero molto elevato. Per esempio in un settore come quello dell’Ict, che dovrebbe essere uno dei favoriti per l’occupazione giovanile, l‘Ue stima che entro il 2020 ci saranno fino a 800mila posti vacanti e, già oggi, in sette dei Paesi membri mancano al mercato 150mila professionisti del settore.

Questo percorso ad ostacoli genera un fenomeno chiamato NEET, giovani che non studiano e non lavorano. In Italia ci sono oltre 2,2 milioni di NEET, cioè giovani di 15-29 anni che non studiano e non lavorano (Not in education, employment or training) pari al 24,3% della relativa popolazione, un’incidenza molto alta soprattutto se paragonata ai livelli europei (14,2%) e nettamente superiore a Germania (8,8%), Francia (14,4%) e Regno Unito (12,3%). Le ragioni profonde per cui i giovani non trovano lavoro sono da ricercarsi, fra le altre cose, nella mancanza di dialogo tra il sistema educativo e quello economico. Il dialogo tra i giovani e il mondo del lavoro deve essere continuo ma ci sono tre momenti più delicati: l’orientamento ai percorsi professionali, lo sviluppo costante delle competenze e la connessione dei talenti al mercato del lavoro.

Per ovviare alla discrepanza fra domanda e offerta nel mondo del lavoro, sono state introdotte una serie di misure, tra cui l’introduzione dell’obbligatorietà dell’alternanza scuola-lavoro. Una misura che non sempre ha ricevuto plausi e che ha fatto discutere nei casi in cui i ragazzi vengano utilizzati per sostituire i lavoratori. Sarà strategico il nuovo piano varato dal MIUR  che ha realizzato linee guida più strutturate e una piattaforma digitale nazionale per collegare studenti ad imprese ospitanti. Inoltre il nuovo sistema prevederà un feedback continuo da parte degli studenti, chiamato “bottone rosso” per segnalare esperienze non formative.

Un altro dato che mostra la difficoltà del nostro paese a trattenere i giovani è il numero di ragazzi che scelgono di lasciarlo e trovare lavoro in un altro paese. Nel 2016 ben 124.076 persone sono espatriate, in aumento del 15,4% rispetto al 2015. E ad aumentare sono soprattutto i giovani: oltre il 39% di chi ha lasciato l’Italia nell’ultimo anno, ben 48.600, ha tra i 18 e i 34 anni (+23,3%) che hanno scelto destinazioni come il Regno Unito, Germania, Svizzera, Francia, Brasile e Usa. La mobilità dei giovani ha un grandissimo valore di apprendimento e reciprocità che in un certo senso deve essere favorita ma a patto di essere una scelta volontaria e non obbligata.

Infine il dato più allarmante resta la povertà giovanile. A dirlo è il recente Rapporto sulla povertà della Caritas Italiana che restituisce una fotografia preoccupante del nostro Paese: la povertà infatti è un fenomeno più pervasivo e diffuso rispetto agli scorsi anni. Inoltre, come si diceva, il dato allarmante è che le persone più penalizzate non sono solo gli anziani, i pensionati, come nel passato, ma i giovani. E mentre in Europa la povertà giovanile è in declino, in Italia è in aumento (dal 2010 al 2015 si riscontra un incremento del 12,9%). Nel 2015 (ultimo anno disponibile per questo tipo di dato fornito da Eurostat) spicca la presenza di oltre 117 milioni di europei a rischio di povertà (23,3% della popolazione complessiva legalmente presente nell’UE a 27 paesi, al primo gennaio 2016). In Italia, il numero totale di persone nello stesso tipo di condizione è di 17 milioni 469mila (28,8% della popolazione), di questo esercito quasi 2 milioni sono giovani.

Se vogliamo crescere come persone, cittadini e come Paese, dobbiamo investire partendo dalle nuove generazioni con politiche attive che forniscano strumenti concreti per realizzare le aspettative delle nostre figlie e dei nostri figli.

L’Infortunio Mentale

Quante volte si sente dire “è questione di testa?” Soprattutto dopo una sconfitta… ciascuno di noi, sentendo e leggendo queste affermazioni, si fa una propria idea di come si “lavora sulla testa”. C’è chi ritiene salutare una bella lavata di capo, per spronare i calciatori (presupponendo che la carenza di risultati sia legata alla poca professionalità); altri interpretano il “lavorare sulla testa”, come il dialogare con i ragazzi, parlare con loro e, in una qualche misura, coccolarli, facendoli sentire al riparo dai sensi di colpa…

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È strano come si presti così tanta attenzione (in alcuni casi in maniera quasi maniacale) alla preparazione atletica dei calciatori, tanto da avere nello staff più di un preparatore, a volte una vera e propria equipe di studiosi della risposta del fisico allo stress atletico. Così facendo si stanno trasformando i calciatori in atleti sovra preparati dal punto di vista fisico: corrono di più, resistono di più, hanno strutture fisiche che li fanno assomigliare a dei colossi… Dei giganti che potremmo definire non con i piedi d’argilla, bensì con una tenuta mentale fragile come cristallo. Un oggetto prezioso da maneggiare con cura perché troppo fragile.

Oggi la sovraesposizione mediatica a cui sono esposti i tesserati del mondo del calcio è enorme, a mio parere esagerata. Si stanno trasformando ragazzi poco più che ventenni in esempi e modelli a cui ispirarsi. Il tutto non in nome di una presunta maturità, ma solo in funzione dello stipendio che prendono, come se avere cifre a sei zeri sul proprio conto corrente incrementi la maturità di una persona. Vogliamo super atleti, sempre al top, macchine in grado di dare spettacolo, come se il calcio fosse uno show televisivo, un circo mediatico che tritura prima o poi chiunque ci finisca dentro. Non è un caso quindi il dato che emerge da un’indagine Fifpro che, su un campionario di 826 atleti (sparsi in 12 federazioni), il 35% soffra di depressione e ansia. Significa che su 11 calciatori schierati in campo, 3 di loro sono in uno stato emotivo e mentale non sereno, con ovvie ripercussioni sulla performance sportiva.

Vedendo il mondo del calcio da fuori si ha un’immagine distorta di ciò che accade veramente in uno spogliatoio. Nello staff di lavoro troviamo preparatori atletici, fisioterapisti, massaggiatori e ultimamente statistici, con il compito di elaborare ed analizzare dati, parametri e telemetrie come si fa con un auto di F1. Già, ma nessuno pensa al software che controlla la macchina.

Il tutto è lasciato al caso, all’autodeterminazione, da parte dei calciatori, di quello che per loro è giusto o sbagliato. Perché ti chiederai? Il perché è singolare, si può far credere ai tifosi che l’attaccante abbia i muscoli fragili, ma non si può dire che abbia una bassa tenuta mentale. Si può sottoporre il calciatore a sessioni di lavoro personalizzate, si può perfino aiutarlo con sostanze (lecite e non lecite) da fargli assumere o iniettare, oppure con terapie per ottimizzare i tempi di recupero, ma non si può dire che il calciatore abbia paura di scendere in campo, o che non abbia pienamente recuperato mentalmente dopo un infortunio.

Non si può far sapere all’esterno che il singolo non si integra nel gruppo per ragioni caratteriali. Il calciatore si deprezzerebbe troppo, con un rischio enorme per il club, che proverebbe a piazzarlo alla prima sessione di mercato utile. Così si compra il campioncino, la giovane promessa, il talento che sboccerà… lo si pagherà a peso d’oro, nella speranza di poterlo rivendere anni dopo, creando plusvalenze e, se il calciatore viene poco impiegato, si liquida il tutto affermando: <<il giocatore sta bene, è solo una scelta tecnica>>. Mai frase fu più falsa! Spiegabile con:<<non me la sento di far affidamento su questo calciatore poiché non ha la tenuta mentale/fisica per garantirmi una performance ottimale>>.

Così si stanno generando calciatori sempre più simili a pacchi regalo da trasferire da un club all’altro per la smania di guadagno dei procuratori. È necessario oggi inserire nello staff una figura preparata a curare l’aspetto mentale. Affiancare l’atleta nell’allenare il “muscolo” più importante che ha, “la mente”. << Non serve lavorare sulla testa dei calciatori, serve allenare le loro capacità mentali>>.