Il recesso anticipato del dipendente dal contratto a termine

Nel rapporto a tempo determinato, il recesso ante tempus da parte del lavoratore può essere legittimato unicamente dalla sussistenza di una giusta causa. Solo in tal caso può essere invocato il risarcimento del danno. E’ questo uno degli aspetti d’interesse che rivengono dalla recente sentenza della Corte di Cassazione nr. 6342/2012. La Corte di Appello aveva respinto il gravame proposto da un lavoratore avverso la pronunzia di primo grado, che aveva ritenuto valido il recesso di quest'ultimo dal rapporto di lavoro a seguito di valide dimissioni .

Rilevava la Corte territoriale che nel rapporto di lavoro a tempo determinato - quale era quello che legava le parti in causa - il dipendente non può legittimamente rassegnare le dimissioni prima della scadenza del termine se non per giusta causa, ma che il difetto di giusta causa delle dimissioni non determina, né potrebbe determinare, come sostenuto dal lavoratore, la nullità o l'inefficacia del recesso, con il conseguente diritto alla riammissione in servizio ed al pagamento delle retribuzioni sino alla scadenza del contratto: sussiste in tal caso viceversa per la controparte il diritto al
risarcimento del danno qualora sia in grado di provare che la brusca ed immotivata cessazione del rapporto abbia compromesso l'attività aziendale.

Osservavano conclusivamente i gidici d’appello che, solo in caso di recesso ante tempus per giusta causa, il lavoratore avrebbe avuto diritto al risarcimento del danno pari all'ammontare delle
retribuzioni che avrebbe percepito se il contratto avesse avuto la durata prevista, come analogamente nel caso di recesso anticipato senza giusta causa del datore, ma che nell'ipotesi di valida manifestazione della volontà di recesso del lavoratore senza giusta causa, il rapporto non poteva che rimanere definitivamente risolto, senza conseguenze risarcitone e ripristinatone.

Il che del resto era conforme ai principi generali secondo cui il soggetto che ha posto in essere una condotta vietata dalla legge non può invocarne la nullità al fine di ottenere un beneficio dalla parte che con tale condotta ha danneggiato.
Per la cassazione di tale sentenza ricorreva ulteriormente il lavoratore. La suprema Corte ha ritenuto destituita di fondamento la prospettazione giuridica avanzata dal ricorrente. Questi sostiene, che solo un recesso assistito da giusta causa possa avere idoneità risolutiva del rapporto di lavoro a termine intercorrente tra le parti, dovendo ritenersi prive di effetti e quindi tali da non incidere sulla continuità del vincolo contrattuale le dimissioni rassegnate in assenza di una causa . Al riguardo deve rilevarsi che la dichiarazione di recesso del lavoratore, una volta comunicata al datore di lavoro, è idonea "ex se" a produrre l'effetto della estinzione del rapporto, che è nella disponibilità delle parti, a prescindere dai motivi che abbiano determinato le dimissioni (a meno che queste ultime non siano inficiate, alla minaccia di licenziamento e risultino perciò viziate come atto di volontà) e dalla eventuale esistenza di una giusta causa, posto che, anche in tal caso, l'effetto risolutorio si ricollega pur sempre, a differenza di quanto avviene per il licenziamento illegittimo o ingiustificato, ad un atto negoziale del lavoratore, che è preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto . Anche in presenza di giusta causa del recesso, la questione se possa essere risarcito il pregiudizio derivante dall'effetto estintivo del rapporto determinato dalle dimissioni, rappresentato dallo stato di disoccupazione e dalla mancata percezione della retribuzione è stata, peraltro, risolta in termini negativi dalla giurisprudenza di legittimità, osservandosi che, in concreto, le scarse opportunità e condizioni di reimpiego offerte dal mercato per le energie lavorative costituiscono fattori estranei al sinallagma, sicché l'eventuale condizione sfavorevole in cui venga a trovarsi il lavoratore dimissionario non costituisce la conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del datore di lavoro e della risoluzione del rapporto che ne è conseguita.

A tali considerazioni risulta ispirata la scelta legislativa di risarcire lo specifico danno da risoluzione del rapporto per inadempimento del datore di lavoro con la sola corresponsione, in via forfettaria e presuntiva, di un'indennità pari a quella di preavviso, con funzione compensativa della mancata percezione delle retribuzioni per il periodo presuntivamente necessario al reperimento di una nuova occupazione, ferma restando la risarcibilità, secondo le regole comuni, di tutti gli altri danni, diversi dai pregiudizi direttamente derivanti dalla risoluzione, cagionati dall'inadempimento del datore di
lavoro.

Pertanto, è stato in modo condivisibile già osservato dalla stessa Corte che, ai sensi dell'art. 2119 c.c., così come il sistema preclude al datore di lavoro che licenzi il lavoratore inadempiente, di domandare il risarcimento del pregiudizio sofferto per trovarsi costretto a reperire sul mercato un nuovo collaboratore a condizioni meno vantaggiose, non è consentito al lavoratore dimissionario per giusta causa ottenere altro che l'indennità di preavviso a compenso del pregiudizio specifico determinato dalla risoluzione del rapporto.
L'interpretazione appare, del resto, la sola in grado di assicurare la necessaria coerenza dell'ordinamento, poiché la risoluzione del rapporto causata dalla volontà del dipendente non può essere regolata in termini più vantaggiosi rispetto al licenziamento ingiustificato. Nessuna peculiarità si può collegare alla presenza del termine, restando pienamente applicabile l'art. 2119 c.c. ed i principi del quale è lo stesso espressione. Non è, invero, consentito assimilare le dimissioni per giusta causa al recesso del datore di lavoro, atteso che quest'ultimo, se ingiustificato, è privo di effetti ed il rapporto continua giuridicamente inalterato fino alla scadenza del termine, con l'obbligo di risarcire il danno cagionato dal rifiuto delle prestazioni offerte. Le dimissioni per giusta causa, invece, determinano la risoluzione del rapporto e, oltre al risarcimento dei danni cagionati dagli inadempimenti imputabili al datore di lavoro, non consentono di compensare il pregiudizio da risoluzione se non con l'indennità commisurata al preavviso dovuto ai lavoratori a tempo
indeterminato .

In tali termini dovendo risolversi la questione delle conseguenze economiche connesse al recesso del lavoratore per giusta causa nel rapporto a termine, non può, a maggior ragione, per la complessiva coerenza del sistema, ritenersi che il recesso ingiustificato, per non essere contemplato dalla norma, sia privo di effetti, con la conseguenza che il rapporto di lavoro non possa ritenersi inciso dalla manifestazione di volontà dismissiva e prosegua inalterato nella configurazione voluta dalle parti fino alla naturale scadenza. Nessuna valenza e significatività può, dunque, attribuirsi all'atto di costituzione in mora del datore da parte del lavoratore, che, secondo quest'ultimo, imporrebbe al primo di provvedere all'adempimento del contratto e ciò anche per la ragione, sopra evidenziata, che l'effetto risolutorio si ricollega anche e pure sempre in tal caso ad un atto negoziale del lavoratore,
che è come tale preclusivo di un'azione intesa alla conservazione del medesimo rapporto .
Il ricorso , in conclusione, è stato respinto.

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