Valido l’accertamento tributario anche se il verbale non è firmato


In materia fiscale, le eventuali irregolarità non comportano sempre l’inutilizzabilità dei dati, dei documenti e degli elementi acquisiti dall’Amministrazione finanziaria
verbale
Legittima la ricostruzione induttiva del reddito, calcolato sui dati raccolti dalla Guardia di finanza, dai quali era evidente l’inattendibilità della contabilità dell’impresa, anche se il verbale non era stato firmato dalla titolare e la verifica fiscale si “sarebbe” svolta alla presenza del solo marito.
Questo è quanto ha affermato la Corte di cassazione con l’ordinanza 23839 del 21 ottobre, accogliendo il ricorso promosso dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di secondo grado della Ctr, che aveva premiato la tesi difensiva di un’imprenditrice familiare, alla quale era stato contestato il mancato versamento delle imposte sia dirette sia indirette e delle addizionali regionali.
In particolare, il giudice di seconde cure aveva evidenziato l’invalidità della verifica fiscale condotta dagli uomini del Fisco in assenza della titolare, ma in presenza di un suo stretto collaboratore familiare, nonché marito. Secondo l’organo giudicante, l’atto dell’accertamento si basava su dati acquisiti non in modo legittimo nel corso della verifica stessa, il che comportava la carenza dei presupposti sostanziali e la nullità dello stesso.

L’Amministrazione finanziaria, nel ricorso principale per cassazione, aveva evidenziato, invece, che la Ctr, nel suo giudizio, non aveva tenuto conto che la titolare dell’impresa familiare era presente durante la verifica della Guardia di finanza e che, tra l’altro, si era rifiutata di firmare il verbale consegnatole alla fine dell’accertamento.
La presenza del marito dell’imprenditrice, nonché stretto collaboratore della stessa, che era a conoscenza della gestione del negozio, secondo la tesi degli uffici finanziari, garantiva che l’attività di accertamento dei redditi celati era stata condotta senza arrecare alcun danno sia alla contribuente sia alla sua attività.

La difesa presentava controricorso.



La Corte di cassazione ha accolto il ricorso principale dell’Agenzia delle Entrate, dichiarandone la fondatezza, ritenendo di non dover accogliere, di converso, il controricorso presentato dai difensori della contribuente.
In particolare, i giudici di legittimità chiariscono che la redazione del processo verbale di constatazione è l’atto conclusivo dell’attività accertativa, frutto di una serie di procedimenti ai quali possono lecitamente partecipare anche diversi organi amministrativi e la cui motivazione può avvenire anche per relationem, ovvero anche per “rinvio pedissequo” alle conclusioni contenute nell’atto istruttorio che, nella fattispecie, è proprio il pvc redatto dalla Guardia di finanza.

Il Collegio sottolinea come, contrariamente a quanto succede nella sede penale, l’eventuale irregolarità dei dati e dei documenti acquisiti dall’Amministrazione finanziaria, in sede tributaria, non inficia sulla loro corretta utilizzabilità.
L’effetto di questo principio applicato al caso di specie legittima, secondo la Corte di cassazione, l’utilizzo delle documentazioni fiscali da parte dell’Agenzia delle Entrate, in sede di ricostruzione induttiva del reddito dell’imprenditrice, calcolato sugli elementi contabili raccolti dalla Guardia di finanza. Detti documenti avevano, inoltre, palesato l’inattendibilità della contabilità dell’impresa.

Anche la Corte costituzionale ha confermato positivamente la possibilità di utilizzare nel processo tributario le sole dichiarazioni rese da soggetti terzi in sedi di istruttoria amministrativa, non dunque penale, proprio perché siffatte dichiarazioni non possono essere ritenute prove testimoniali, ma trovano loro utilizzo come indizi; le dichiarazioni rese da terzi ex articolo 351 cpp sono, invece, da ritenersi come vere e proprie prove testimoniali. In particolare, la Suprema corte, con la sentenza 7707/2013, ha chiarito come il giudice tributario non possa escutere testimoni, ma può valutare i documenti che contengano dichiarazioni di terzi, anche a favore del contribuente.

È proprio l’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992, a vietare espressamente l’ammissione della prova testimoniale nel giudizio davanti alle Commissioni tributarie e il giuramento dei testimoni. Infatti, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto legittimo che i giudici formassero il proprio convincimento tenendo conto anche delle dichiarazioni di terzi contenute nei processi verbali degli uffici tributari e/o della Guardia di finanza, nell’ambito della loro attività ispettiva.

Dunque, alla luce di quanto detto, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso in via principale dell’Agenzia delle Entrate, rinviando la decisione al giudice di appello per nuovo esame, che dovrà uniformarsi ai principi enunciati.
Valerio Giuliani

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