Cassazione: la banca risarcisce l'impresa entrata in crisi per il no al mutuo frazionato
Se l'impresa di
costruzioni entra in crisi per colpa della banca che le ha negato il
frazionamento del mutuo senza una valida ragione, l'istituto paga i danni.
Il frazionamento del
mutuo, nel permettere di "scomporre l'importo a debito" in ragione
delle distinte unità abitative ovvero proprietà è una modalità che agevola
e rende fluido il mercato immobiliare incontrando il favore degli
acquirenti da un lato e dell'impresa costruttrice dall'altro - sostanzialmente
favorisce il mercato.
Nel caso in
sentenza, il mancato frazionamento del mutuo conduceva l'impresa
costruttrice in situazione di oggettiva difficoltà, rendendole impossibile la
vendita degli immobili e, conseguentemente, onorare i pagamenti nei tempi
stabiliti.
Tre le ragioni
dietro le quali si era trincerata la ricorrente per respingere la richiesta
della cliente: la morosità, il carattere facoltativo e non obbligatorio del
frazionamento e la volontà di mantenere l'ipoteca indivisibile. Nessuna di
queste ragioni per la Cassazione era valida per chiudere la porta in faccia
all'azienda.
La morosità - spiegano i giudici della prima sezione - non era precedente alla decisione della banca ma successiva. E dipendeva proprio dal comportamento dell'istituto, che per ben tre anni aveva rifiutato di prevedere un debito pro quota, provocando la crisi dell'impresa che aveva avuto uno stallo nelle vendite degli appartamenti e un ritardo nei pagamenti.
Non è valido neppure l'argomento sull'assenza di un obbligo da parte della banca che aveva la mera facoltà di soddisfare la richiesta della ditta. La Cassazione spiega che dalla parte del cliente c'erano, se non un contratto, una prassi consolidata e il dovere di agire con correttezza e buona fede nei confronti del creditore, come affermato dalla relazione ministeriale al codice civile che richiama «nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore».
La morosità - spiegano i giudici della prima sezione - non era precedente alla decisione della banca ma successiva. E dipendeva proprio dal comportamento dell'istituto, che per ben tre anni aveva rifiutato di prevedere un debito pro quota, provocando la crisi dell'impresa che aveva avuto uno stallo nelle vendite degli appartamenti e un ritardo nei pagamenti.
Non è valido neppure l'argomento sull'assenza di un obbligo da parte della banca che aveva la mera facoltà di soddisfare la richiesta della ditta. La Cassazione spiega che dalla parte del cliente c'erano, se non un contratto, una prassi consolidata e il dovere di agire con correttezza e buona fede nei confronti del creditore, come affermato dalla relazione ministeriale al codice civile che richiama «nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore».
Un principio -
sottolineano i giudici - che va inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere
di solidarietà (articolo 2 della Costituzione) reciproca a prescindere
dall'esistenza «di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente
stabilito da singole norme di legge, sicché dalla violazione di tale regola di
comportamento può discendere, anche di per sé un obbligo risarcibile». Anche il
desiderio da parte della banca di avere un solo debitore mantenendo un'unica
ipoteca non è un buon motivo per venire meno agli obblighi "istituzionali".
Inutilmente la banca, condannata a pagare circa 152mila euro oltre alle spese legali, contesta il criterio del cumulo di rivalutazione annuale e di interessi. La scelta si basa sulla natura del debito accertato che è di valore e non di valuta. Rientrano quindi nel danno da liquidare non solo la rivalutazione monetaria della somma corrispondente al valore perduto dal patrimonio del danneggiato all'epoca del fatto, ma anche gli interessi legali sul ritardato risarcimento. La tecnica di liquidazione adottata, diversa da quella prevista per gli interessi moratori (articolo 1224 del Codice civile), consente la rivalutazione progressiva delle somme.
Inutilmente la banca, condannata a pagare circa 152mila euro oltre alle spese legali, contesta il criterio del cumulo di rivalutazione annuale e di interessi. La scelta si basa sulla natura del debito accertato che è di valore e non di valuta. Rientrano quindi nel danno da liquidare non solo la rivalutazione monetaria della somma corrispondente al valore perduto dal patrimonio del danneggiato all'epoca del fatto, ma anche gli interessi legali sul ritardato risarcimento. La tecnica di liquidazione adottata, diversa da quella prevista per gli interessi moratori (articolo 1224 del Codice civile), consente la rivalutazione progressiva delle somme.
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